Oggi
è San Giovanni e Firenze è più festosa del solito, ma in generale
l’inizio dell’estate è accompagnato da iniziative nei vari spazi
aperti in città e fuori che ci portano nelle piazze e negli
anfiteatri, nei giardini e nei cortili per un film, una lettura o,
magari, un concerto.
CONfusion - Vicchio - 21/06/2018 Foto di Melania Ciampolini |
Questa
settimana sono uscita quasi ogni sera ed ho avuto il piacere di
assistere a due concerti, uno di questi è stato il concerto del coro
CONfusion nella foto, che fra le altre belle canzoni, mi ha fatto
sentire ancora una volta “Bread and roses”.
Ieri
in macchina cantavamo a squarciagola come facciamo spesso, questa
mattina tramite facebook mi sono goduta fino in fondo il video del
Late Late Show di James Corden a spasso con Paul McCartney per
Liverpool, e durante la puntata odierna de La lingua batte radio3
ha trasmesso una canzone di Vecchioni che ho improvvisamente
ritrovata e ricordata con enorme commozione: Euridice.
Per
tutte le circostanze che ho menzionato e trascinata
dal mito di Orfeo nella
narrazione di Vecchioni ho pensato che avrei voluto parlare del canto
e che questa parola ha, a buon diritto, un posto d’onore nel mio
vocabolario solitario.
Il
canto è un’espressione così naturale dell’uomo da essere
presente anche in civiltà che non possiedono una lingua scritta ed
una conoscenza della musica canonica. In effetti il canto appartiene
in origine proprio all natura e agli uccelli. Ignoro come l’uomo
abbia iniziato a modulare i suoni che emetteva e
ad accompagnarli con suoni prodotti grazie ad altri strumenti (anche
se la proposta avanzata da Mel Brooks ne “La pazza storia del
mondo” era particolarmente
spiritosa), quello che è
certo è che da sempre l’uomo ha utilizzato il canto per dialogare
con la natura e con gli Dei e per accompagnre ritualità sociali o di
guerra. Ingraziarsi gli Dei, pregare, condividere, festeggiare,
incoraggiare, spaventare, piangere. Quante storie e quante intenzioni
dietro la modulazone della propria voce!
Gli
odierni concerti Rock non sono forse riti collettivi? E l’inno
intonato prima di un incontro di calcio, non suona quasi come un
peana? Tuttora accompagnamo la preghiera con il canto, cantiamo in
coro tanti auguri al festeggiato, ci
mettiamo in cerchio guidati dall’amico con la chitarra.
Come
Orfeo che incantava anche le pietre ed ha sfidato l’aldilà per
riavere la sua Euridice, così, nel nostro piccolo, innalziamo
il nostro canto, diciamo la
nostra rabbia o il nostro amore, confessiamo le nostre paure,
proviamo a vincere la morte, ben sapendo, come l’Orfeo di
Vecchioni, di “essere lacrime nella pioggia... perché
le carezze di ieri non saranno mai più quelle...
ma là fuori si intravedono le stelle…”
Poi
ci sono voci eterne,
e ascoltando la Callas o Janis Joplin o Amy Winehouse, ci pare che
davvero il suono di una voce possa vincere la morte. Ognuno
di noi ha le sue personali voci eterne.
Ricordo
mia mamma che cantava sulla scala mentre puliva i pendenti del
lampadario di cristallo “Signorinella pallida...”
e altre canzoni del dopoguerra, ricordo la mamma e anche la nonna che
mi cantavano “Fate la nanna coscine di pollo”.
Quante volte l’ho cantata ad Anna. Sempre
me la chiedeva insieme a “La Canzone di Marinella”
e a “Somewhere over the Rainbow”.
Così
come abbiamo cullato i piccoli accompagnandoli senza paura nel buio
della notte, anche noi facciamoci cullare dalle
note di una canzone, da una voce senza tempo, dalla nostra voce che
si mescola con le altre in una preghiera ininterrotta, in un inno
alla vita.