lunedì 15 giugno 2020

Distanziamento


In tanti hanno scritto dei diari durante la quarantena. Descrizioni a volte anche minuziose di un quotidiano ristretto e autoreferenziale, alle quali facevo fatica a interessarmi anche quando scritte da abili penne.
Adesso che la quarantena è superata e sostituita da prudenza e distanza. Adesso mi viene voglia di interrogarmi e annotare questo confronto con un mondo immutato oppure del tutto inedito.
Per qualche strano motivo, forse chiaro a psicologi e terapeuti ma a me oscuro, di fronte alla realtà fenomenica e altra mi sento spaesata e, a tratti, affaticata. Infatti, se la cifra del mio vivere in quarantena era quella dell’impegno. Un voto monastico a rispettare orari, riti, prestazioni professionali e cure familiari e domestiche; ecco, la cifra di questa nuova fase di riabilitazione alla vita è quella di una fatica interiore e anche fisica nel recupero dello spazio e della socialità. Questo lungo isolamento è stato connotato da una miscela tra una profonda introspezione e un’attenta osservazione dell’umanità e della realtà, ovviamente nella loro rappresentazione veicolata dai mezzi di comunicazione e informazione. Uno studio antropologico e sociale del quale mi trovavo a essere oggetto e soggetto insieme.
Tutto è cambiato; eppure, non per tutti allo stesso modo.
Per molti questa emergenza ha significato malattia e lutto; per alcune categorie, lavoro in condizioni di rischio ed emergenza. Su tanti si sono abbattute le spietate conseguenze della crisi economica. Per molti si è trattato di un cambio di vita, di abitudini e di quotidiano. Una reclusione forzata tra le quattro mura domestiche in un palinsesto di attività alcune smart e altre con la scopa o il mestolo in mano. C’è stata una riscoperta del nido, per chi ce l’ha, e della famiglia. Una famiglia a tratti anni cinquanta, con angeli del focolare intenti a sfornare pane e torte di mele, un po’ tribale, in una strenua difesa della capanna, a tratti contaminata da un esterno che, trovando la porta sbarrata, si è introdotto in casa dallo schermo.
Dalle nostre celle di clausura abbiamo incontrato la professoressa impegnata nella DAD con il marito che transita alle sue spalle intento a caricare la moka, il collega spettinato, con la felpa, che partecipa alla riunione seduto sul letto, la voce del bimbo che chiede come risolvere il problema di matematica, il sorriso di un amico felice di vederti, pur da lontano. Il lavoro si è impossessato del salotto, occupando un tavolo che un tempo serviva per ospitare gli amici a cena. Il lavoro, che un tempo era davvero remoto, anzi, quasi recondito, si è avvicinato e scoperto, gettando una luce su una porzione della nostra vita per lo più ignota a chi ci vive accanto. Gli insegnanti hanno visto camerette disordinate e tappezzate di foto e oggetti; gli studenti hanno fatto esperienza dei professori incorniciati da affetti e suppellettili, probabilmente più umani e, spesso, teneri ai loro occhi, nel tentativo di familiarizzare con strumenti mai sperimentati. Genitori sempre altrove si sono ritrovati sotto lo stesso tetto dei figli per un tempo lunghissimo.
Nessuno avrebbe probabilmente scelto anche solo una delle manifestazioni di questo esilio dal mondo, eppure, questa esperienza ci ha regalato consapevolezze mai intuite prima.
Di contro, il mondo si è ristretto. Hanno fatto il loro ritorno i confini e sono cresciute le distanze da interporre tra le persone. Come vittime di un’illusione ottica siamo inizialmente spariti, puntini infinitesimali perduti in una natura incommensurabile, ridotti a numero da statistica. Nel microscopio della nostra vita in cattività quel puntino si è ingigantito a dismisura, mentre il mondo si andava restringendo sempre più. E mentre fuori si riaffacciavano i confini ci siamo resi conto di non esperire più il confine del sé, confuso in un habitat sempre uguale o esercitato in un esterno ove lo spazio si espande per decreto o ordinanza, quando non per paura.
Stiamo gradualmente riacquistando spazio e incontri pur con prudenza e limitazioni, più o meno elastiche; tuttavia, questo percorso di avvicinamento è pensato per farci tornare a consumare, ma non veramente ad incontrarci ed essere vicini.
Quello che è successo è immane e chi ne nega la gravità offende la memoria dei defunti e dei malati e usa strumentalmente il malcontento per trarne vantaggio personale, tuttavia, non è accettabile trascurare le conseguenze umane e sociali oltre che sanitarie, economiche ed educative di questa epidemia.
L’essere umano acquisisce abitudini con estrema facilità e l’abitudine alla distanza e all’isolamento potrebbe lasciare tracce indelebili e difficili da curare in una civiltà già estremamente individualista e prigioniera della realtà virtuale.
Non sentivo il bisogno dei diari della quarantena, ma vorrei che ora ci fermassimo a pensare a come vogliamo accostarci all’altro nella fase di riabilitazione che abbiamo davanti.
Mi piacerebbe che questo momento fosse raccontato perché l’introspezione senza occasioni di confronto resta una vuoto mulinello. Solo nell’incontro si può conoscere anche se stessi e credo saremo tutti curiosi di sapere come siamo cambiati nel passaggio che abbiamo conosciuto. Cosa guida l’avvicinamento all’altro in questo strano tempo? Curiosità, affinità, desiderio, timore, forse, cura. Si vede tanta rabbia in giro. Quando viene meno il prossimo, fanno la loro comparsa i nemici e le contrapposizioni. Ecco, credo sia la “fase” di cui dobbiamo preoccuparci tutti.

Sesso