domenica 11 agosto 2019

Stelle


In una giornata torrida come quella di oggi una gita fuori porta in cerca di frescura e di respiro può alleviare la pesantezza del clima urbano ma anche dell’asfittico spazio domestico oscurato e senza voce. Non ero mai stata a Firenzuola. La nostra meta era il passo della Futa e a Firenzuola abbiamo dedicato una breve sosta. Prima di andare ho interrogato Wikipedia ed ho scoperto che Firenzuola è il comune più a nord della città metropolitana di Firenze e che il centro abitato venne edificato al tempo del Granducato e deve il suo nome al capoluogo toscano. Ho anche appreso che a Firenzuola si trova un museo della pietra serena, che però abbiamo trovato chiuso, ma, soprattutto, ho trovato una notizia veramente interessante: in questa zona, il 10 agosto 1968 è caduto un meteorite.

Personalmente trovo la notizia molto interessante e rivelatoria. Non ho cognizione di frequenti localizzazioni di meteoriti e mi è parsa cosa piuttosto singolare; ma ammetto di non interessarmi abitualmente di corpi celesti. L’associazione tra 10 agosto e la parola meteorite mi si è imposta con la sua verità scientifica al di là della formula stantìa e abusata di “notte delle stelle cadenti” con il loro carico greve di desideri espressi che sono spesso miseri bisognini. Mentre scrivo mi accorgo che nella parola desiderio ci sono già le stelle e che il moto che ci spinge ad alzare lo sguardo è inverso e ci viene suscitato dall’alto. Il desiderio è un’aspirazione al sublime, non una fame o un bisogno da soddisfare.

Ora che il firmamento mi appare in tutto il suo siderale e distante splendore provo l’impellente bisogno di tornare, anzi di precipitare sulla terra a cavallo del meteorite al quale voglio manifestare tutta la mia simpatia. Ritengo di avere titolo per questa presa di posizione in difesa dell’evento calamitoso che nessuna compagnia assicurativa si sognerebbe di coprire, perché proprio il 10 di agosto ho avuto il mio personale e specifico meteorite e, anche se mi ha causato non pochi danni, ne conservo un ottimo ricordo. E poi, diciamo la verità, le stelle, così distanti, che se ne brillano di luce propria lassù, inaccesibili e solitarie, meccanica celeste del nostro destino di marionette per gli appassionati di oroscopi, possono riempirci il cuore di stupore e desiderio, ma ci lasciano lì a sperare in soluzioni dall’alto sottraendoci al nostro diritto e dovere di agire e di scegliere, ogni giorno, il bene o il male. Privandoci del rischio, dell'alea inseparabile dalle scelte d'amore.

Cimitero germanico della Futa - Foto mia
Il libero arbitrio è il tema centrale della storia del Grande Inquisitore contenuta ne “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij e oggetto della rappresentazione teatrale itinerante Pro e Contra alla quale ho assistito presso il suggestivo cimitero germanico del Passo della Futa.

 Lo spettacolo contrappone il nichilismo e l’indifferenza di una vita senza Dio al desiderio di vita e di senso che si realizza ogni giorno nel ricordo, nell’azione, nello sguardo d’amore. 

Un desiderare di farsi stelle, il de-siderare se stessi per illuminare intorno, per dare la luce e la vita a coloro che amiamo, senza bruciarsi in onanistiche combustioni che lasciano una scia di gas ma non regalano una sola fiammella.

Sul cratere lasciato dal meteorite nella nostra terra possiamo mettere una croce e una data e serbare un dolce ricordo, come saggiamente ci insegna il cimitero. Alle stelle possiamo guardare con emozione e stupore, ma senza chiudere gli occhi ed esprimere desideri per i quali non avremmo il coraggio di combattere in prima persona.

sabato 29 giugno 2019

Estate

Foto mia
Al mare giugno è il mese dei bambini; si sa. Appena chiuse le scuole si riversano sulle spiagge. Un mercoledì di fine giugno, passeggiando sulla battigia questo banale luogo comune acquista una sostanza fatti di corpicini che si spostano incerti e traballanti con secchielli, braccioli e palette o che ciondolano intorno all’ombrellone vagamente annoiati, occhieggiando i vicini. Una volta fuori dal mondo perfettamente organizzato e tecnologico nel quale hanno un ruolo chiaro e ben definito e del quale conoscono perfettamente la coreografia, i bimbi mostrano qualche incertezza di fronte alla distesa d’acqua senza fine che si trovano davanti e a quel tempo non scandito e vincolato. Come se non sapessero cosa farsene. I veri protagonisti sono i nonni. Certo; perché la maggior parte di questi bimbi “in ferie” è affidata alle cure amorevoli dei nonni.

Un bambino aggrappato alla schiena della nonna  spenzola nell’acqua come un’esca mentre l’agile e corpulenta signora con i capelli corti e scuri di tinta si muove nell'acqua provando a dare lezioni di nuoto: “Ecco, qui non si tocca. Muovi le gambe, ma tieniti! Quando è più bassa te lo dico e provi staccarti”.

Come incantato il nipotino le fissa la schiena, tenendosi forte, senza fare il minimo movimento. “Ma sei tutta sudata!” “Macché sudata! Sono bagnata!”.

Mi allontano nuotando dalla scena, divertita e al tempo stesso stupita di come la realtà materica possa sfuggire a queste creature per le quali può essere misteriosa come per me il Bosone di Higgs.

E così camminando mi scopro a guardare quei corpi maturi, come una sorta di ultimo baluardo della realtà fisica e della forza dei sentimenti più profondi. Disteso sul bagnasciuga, immobile come un salodato di guardia, un nonno si lascia ricoprire di sabbia bagnata versata da un secchiello minuscolo in uno stillicidio che potrebbe durare ore. Imperturbabile col cappellino da sole, offre così il proprio corpo in sacrificio alla piccola nipotina addetta alla colata.

Mano nella mano una coppia in età decisamente avanzata mi cammina davanti, il passo lento e attento, le mani intrecciate, una meta da raggiungere.

E quante signore attempate, di buon passo, con abbastanza primavere da sapere che ogni estate potrebbe essere l’ultima, esporre così il corpo nudo alla brezza marina, sentire la sabbia sotto i piedi, il rumore della risacca, guardare il bagnasciuga che trascolora e riluce ad ogni onda.

Ho prenotato una camera con la terrazza che affaccia sul mare. Solo due notti per noi due, solo tre giorni insieme alla mia piccola donna che alle volte mi sembra un po’ marziana, quando mi parla di tatuaggi e musica trap, ancora di più quando inaspettatamente mi legge a voce alta la città invisibile di Calvino che ha il mio nome. E io le leggo Tolstoi e le cito il Principe Nicola Andrèievic Bolkonski che dice alla figlia “La scioccheria ti uscirà dal capo” e ridiamo, ridiamo insieme e insieme ridiamo dello chef nervosetto che al ristorante mi sbriciola pane sulle pietanze e si offende se non le mangio, ridiamo facendoci una foto.

La comunione con un altro individuo non può mai essere assoluta e scontata. Ci avviciniamo per vie misteriose e ci sentiamo lontani, a volte irrimediabilmente. Come l’onda che lambisce e illumina un lembo di spiaggia per poi ritrarsi lasciandolo più scuro, così la comunione viene e va. Ritorna coi gesti d’amore, con le scelte quotidiane; immobili sepolti sotto la sabbia, al largo con una creatura che specchiandosi nelle gocce scintillanti sulla tua schiena imparerà a nuotare, tenedosi per mano, sempre più stretti quando il passo si fa più incerto.

Estate. Vento sulla pelle, sabbia sotto i piedi. Guardarsi allo specchio con affettuosa indulgenza e assaporare i frutti succosi e maturi della stagione. Avere la fortuna di amare e saperlo, mentre guardiamo dormire chi si ama, con il cuore che sembra scoppiare. Estate è pienezza di vita e verità sotto il sole.

domenica 9 giugno 2019

Vulnerabilità

Alcuni giorni fa con il Laboratorio di scrittura di Alessandra siamo   andati in gita e la meta della gita era Piazza D'Azeglio, dove  Alessandra ci ha chiesto di scrivere una storia, un ricordo, una descrizione; insomma, ci ha chiesto di sedersi su una panchina  e  narrare. Io ho un ricordo legato a quella piazza che non mi ha   lasciato scelta e voglio condividerlo sul blog con questo titolo   perché credo alle parole di C.S. Lewis, autore fantasy di Narnia, che "amare significa essere vulnerabili" e credo che lasciarsi ferire  sia una capacità, una vera abilità, strettamente connessa alla  nostra  capacità di amare. 


Piazza D'Azeglio
Foto di Alessandra Cafiero



La sistemai sul passeggino e lo sollevai con lei seduta che mi guardava sempre piena di stupore. Con una forza che prima di Anna non sapevo di possedere scesi le scale, così, la borsa su una spalla e il passeggino contro il corpo. Uscii in strada, borbottai contro i soliti automobilisti indisciplinati e le auto parcheggiate sul marciapiede che mi costringevano a continue e pericolose deviazioni in piena carreggiata.
Non credo di aver mai veramente avuto paura della morte fino alla gravidanza e ai primi anni di vita di Anna. Ricordo con chiarezza il terrore di essere investita, di abbandonarla, di venir meno al mio compito.
Piazza D’Azeglio era quieta e assonnata un po’ come me, spossata da una notte faticosa. Feci scendere Anna e tenendola per mano la portai a cavalcare sulla molla e poi sull’altalena.
Il suo passo era ancora incerto e traballante, aveva un anno e mezzo. La presi in braccio e la sistemai sull’altalena. Rideva felice pronta a volare e io la tirai verso di me guardandola sorridere e poi la spinsi via con forza per farla volare in alto. L’altalena oscillò all’indietro e quando raggiunse la massima altezza, in quell’istante di fermo immagine che segna l’inizio della discesa e del ritorno, la vidi scivolare lentamente, le manine sollevate, inermi.
Il colpo ai denti fu violento, piangeva, il viso insanguinato. Non ricordo più bene. Ricordo una signora che mi si accostò porgendomi il dentino. Ricordo di essere andata al Meyer in taxi.
Poi ricordo molto bene quel sorriso bellissimo e perfetto devastato e scomposto da un vuoto, una ferita sempre aperta.
“Vede signora il trauma purtroppo ha danneggiato gli alveoli. Gli incisivi anteriori non cresceranno”
“E quindi, scusi, cosa posso fare, un impianto?”
“Si, certo. Quando avrà 18 anni, non prima”.
Ricordo bene le visite dal dentista, le radiografie, le TAC, gli apparecchi, il dito in bocca che faceva diventare sempre più grande la finestra che le squarciava il sorriso. Ricordo le richieste sempre uguali: “Ti è cascato un dente? E’ passato un topolino?” . Ricordo Anna paziente. Ferita e paziente.
Ricordo bene quel giorno ad agosto 2013, la mamma era morta da poco più di un mese e sulla gengiva, là in alto, si vedeva come un puntino. Ricordo Anna che si toccava e si guardava allo specchio finché non fu certa che quel puntino era un minuscolo pezzettino di quel dente informe, scuro e senza radice che nonostante tutto aveva trovato la strada e voleva uscire.
“E’ stata la nonna dal cielo” disse.
Forse era davvero così e so che la mamma se avesse potuto farmi un regalo mi avrebbe fatto proprio quello.
Ricordo quando lasciammo il dentista, due anni fa, con le faccette lisce e bianche poste sopra quelle escrescenze sgraziate. Ricordo di averla guardata sorridere felice. Mai così felice. Mai quanto me nel vederla.
Quante volte ho pensato che quella mattina avrei potuto rimanere a casa e non portarla ai giardini, avrei potuto non metterla sull’altalena, accorgermi che era difettosa.
Questa storia è ancora oggi la storia della mia vita che vorrei riscrivere. Il destino che vorrei cambiare. La forza degli eventi che non possiamo controllare, il dolore che dobbiamo accettare, la colpa che dobbiamo portare.
Non ho saputo farti volare. Mi hai insegnato a guardare il cielo.


Anna - Foto mia

venerdì 29 marzo 2019

Vuoto

Seduta nella nostra cucina con la schiena dritta, questo il ricordo più vivido della nonna Anna, forse perché quello abituale, l’esperienza che facevo di lei, quasi ogni giorno. E quel gesto, che un po’ mi irritava e un po’ mi ipnotizzava: le mani poggiate sul grembo, le dita intrecciate e quell’ossessivo girare i pollici, prima in un verso e poi nell’altro. Come una sfida che da quell’angolo cresceva pacatamente assumendo le dimensioni di un turbine che smascherava un vuoto, uno spazio di non senso che ci riguardava tutti.

Qualche sera fa ero seduta sulla poltrona di un cinema e abbassando lo sguardo ho incontrato le mie mani non più giovani poggiate nel medesimo modo e i pollici si sfioravano incerti come puledri scalpitanti pronti a farsi un giro. Sono trasalita. Ho subito alzato la testa e mi sono guardata intorno, chidendomi se qualcuno poteva essersi accorto che non ero più io. Cioè lo ero, pur sempre, ma quelle rughe sulle dita e quel moto involontario mi hanno trasformata anche in altro, in mia nonna. Tuttora quel gesto mi inquieta, di più se a compierlo sono le mie mani, di più se le scopro così, sul fatto.

Non poi così difficile scovare un vuoto intorno; nella mia vita è facilissmo, non serve neanche scomodare la nonna Anna. La verità è che quello che ho trovato è più complesso ed ha a che fare con l’invecchiare, con l’esperienza, con gli strati di pelle, con le cicatrici, con i gesti appresi e anche con quelli involontari.

Il 29 marzo 1929 la nonna Anna partoriva la mia mamma.

Questa giovane donna mi guarda con naturale eleganza in un abito cucito con le sue belle mani, la pelle liscia e luminosa, la caviglia delicata, il prodigioso sorriso. Da questa foto non si possono certo indovinare i lutti, la guerra, la fame, le battaglie della bimba che è stata. Questa giovane donna ha ancora una vita davanti che non le risparmierà molto, eppure nessun turbine le ha portato via il senso e il sorriso.

Questa donna è stata tante cose che ho rifiutato e non ho voluto essere, eppure resta la mia maestra, la mia guida, il modello più nobile.

Quel sorriso mai perduto, come la pelle liscia, sono i ricordi che mi porto dentro in un pieno di senso che non ha paura di tanti vuoti. Questa ragazza non è invecchiata dentro, ha conservato la capacità di stupirsi e gioire, ha portato dentro di sé un cuore affaticato ma grandissimo ed ha lasciato un vuoto pieno di sé.

Questa ragazza mi dice che con l'età si accorcia il tempo ma cresce lo spazio e nella me che invecchia c’è posto per la ragazza, per la nonna, per la madre, per la figlia, per stupirsi, per riempire il vuoto di tutto il bene di cui sono capace e provare ogni giorno, sempre a dargli un nome.

lunedì 25 febbraio 2019

25 Febbraio

Oggi ho scritto un biglietto d'auguri, per la mia ragazza.

Cara dancing queen, young and sweet only seventeen, come dice la canzone di Mamma Mia che cantiamo insieme a squarciagola, vederti diventare donna, sebbene sia l’effetto dell’inesorabile passare del tempo su di me, in realtà non mi fa sentire vecchia.
Quando ti ho avuta e anche quando eri piccola ho vissuto, come credo tutti i genitori, un’esperienza ricca di livelli e sfaccettature dove sono riaffiorati ricordi della mia infanzia, sono nate riflessioni sull’esperienza di figlia ma anche su quello che hanno vissuto i miei genitori. Le esperienze importanti della nostra vita, quelle che ci fanno fare grandi balzi avanti non possono non avere radici profonde e lontane e i viaggi memorabili sono circolari.
Essere genitore è una grande responsabilità. Tante paure e preoccupazioni ma anche un’iniezione di coraggio e speranza, e oggi che sei sempre più distante anche fisicamente, questo tuo bisogno di autonomia e separazione mi rattrista e, al tempo stesso mi fa sentire fiera e sollevata. Non so se sono stata una buona madre, sicuramente mi sono impegnata e sicuramente il risultato in qualche modo mi rappresenta, nel bene e nel male. Vorrei ancora proteggerti e credo tu abbia ancora bisogno di me e di starmi vicino. Al tempo stesso credo tu abbia diritto alle esperienze e agli errori, come tutti, e spero tu abbia la forza e la personalità per affrontarne le conseguenze e assumerne la responsabilità.
Ieri mattina sono uscita per camminare e mi sono ritrovata al parco dello Stibbert e al giardino dove tante volte siamo state, all’uscita di scuola o per qualche festa o merenda estiva con amici e compagni. Ho pensato con dolcezza e tenerezza a quei giorni, alle foto che abbiamo, ai ricordi, al mio sentire di quel tempo, a quello che credevo di sapere, ho guardato con tenerezza anche a me stessa. Certo era più facile essere madre allora, mi sono seduta su una panchina ed ho guardato due ragazze spingere il loro passeggino ed ho avuto chiaro che la dolcezza che mi pervadeva in quella situazione in nessuno modo potevo chiamarla nostalgia.
Il Parco dello Stibbert  - Foto mia

Certe cose le porto dentro e mi appartengono ed erano con me su quella panchina, volteggiavano come spiriti portati dal vento tra i rami degli alberi e sul prato. Quell’essere famiglia in modo partecipe, unito, anche convenzionale. Anni belli con la tua fanciullezza a riempire il cuore di gioia e speranza e tanto amore, e una famiglia unita. Eppure, sola su quella panchina, non sono certo meno vera, e, senza dubbio, non c’è meno amore di allora dentro di me, né principi meno solidi.
In questa età difficile, turbolenta e incerta che stai vivendo, oggi che è la tua festa vorrei mandarti proprio questo messaggio: non avere paura. Nulla si perde e, soprattutto non ci si perde, neanche volendo. E se c’è una spiegazione e una ragione per il mio personale essere madre, così imperfetta e spaventata, una ragione che da quando ti ho tenuta in braccio la prima volta non è mai stata così chiara come adesso, quella ragione è la tua unica, inedita e autonoma esistenza. Non desidero che tu dipenda da me, ma desidero esserci per te, come posso e come riesco. Si può essere uniti anche fuori da schemi facili e convenzionali. Esserci. Litigare e combattere o sorridere ed essere complici, su un prato fiorito ma anche sotto il temporale.
L’augurio che ti faccio oggi è lo stesso che ti ho fatto sempre, fin dal tuo primo compleanno ed è che tu possa riconoscerti nella vita che fai. E adesso che sei cresciuta e ti guardo cercare la tua strada, voglio dirti che proprio quello è il senso e il solitario lavoro di una vita. Che non ci sono traguardi ma solo percorsi. Il consiglio che posso darti è di cercare di fare quel lavoro dando spazio al meglio di te e senza mai scoraggiarti.
Vederti diventare donna non mi fa invecchiare ma mi aiuta a crescere, perché è il lavoro di una vita ancora e sempre, anche per me e, avendo attraversato tanto male senza essermi persa, ti posso dire di guardare con serenità al percorso anche quando sarà inaspettato e più difficile, anche quando penserai di essere sola, ma ti basterà guardarti intorno per trovare segni, ricordi e presenze, e ti basterà sussurrare mamma, come io faccio ancora oggi, e saprai che sono lì con te.

Sesso