venerdì 4 settembre 2020

Famiglia

 

 

In questi giorni si chiude un cerchio importante per me e la parola famiglia scolora in un volume della mia storia che ha un suo posto nella parte alta della libreria, quella che si raggiunge con la scala. La costola sfilacciata, alcuni fogli staccati, un fiore, o meglio un ago di pino tra le pagine ingiallite.

Quando un cerchio si chiude, si generano, come per magia, due spazi distinti dove prima non vi era soluzione di continuità. L’unità sacra e inviolabile si è incrinata e la crepa ha fatto la sua strada fino al punto dal quale era originata. Chiudere il cerchio consente di lasciare fuori chi e cosa quell’unità ha distrutto. Al tempo stesso offre la possibilità di preservare all’interno ciò che quell’unità ha nutrito e che di essa si è nutrito.

Se mi chiedo cosa sia la famiglia e se la sua sostanza resti dentro o fuori dal cerchio, devo ammettere che ciò che resta sono memorie e nostalgia di un’unità perduta, un sentire magari anche comune, ma sicuramente non condiviso.

La familia latina era originariamente costituita dagli schiavi della casa, una sorta di pertinenza. Anche oggi il concetto di famiglia resta per lo più legato alla coabitazione, prevista peraltro dal codice civile, che struttura l’istituzione per gradi e ruoli con precisi diritti e doveri. Un’obbligazione giuridica prima ancora di una volontà spontanea. Chi mi conosce sa che, a differenza di coloro che considerano il matrimonio civile un rito squallido, ho sempre apprezzato la lettura degli articoli del codice civile che sanciscono diritti e doveri dei coniugi: fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell'interesse della famiglia e coabitazione. Questo perché non ho mai pensato ai legami amorosi come a una vicenda esclusivamente romantica e passionale. Se è indubbio che sia possibile essere fedeli, collaborare e coabitare senza amarsi è, a mio avviso, improprio, definire “amore” un legame che non si fondi su tali basi.

Oggi, nella cosiddetta società liquida, deresponsabilizzazione e individualismo sono la nuova religione fondamentalista. La conseguenza di ciò è che la famiglia arriva fin dove arriva “la buona sorte”, difficilmente oltre. Qualche sera fa ho ascoltato con interesse e piacere Sandro Veronesi durante la manifestazione “la città dei lettori”, in quell’occasione lo scrittore toscano, ha affermato che la famiglia non esiste più, ha cessato di esistere quando ha cessato di essere indissolubile.

In parte sono d’accordo con lui. Sicuramente la famiglia non è più la stessa e quando gli psicologi ci ripropongono modelli genitoriali o affettivi fondati su categorie come “ruolo”, “autorità” ed “esempio”, provo la sgradevole sensazione che si siano trasferiti tutti su un altro pianeta dimenticandomi quaggiù alle prese coi social e a fronteggiare armata di freccette una trasformazione epocale della società assimilabile a una bomba atomica.

La famiglia non è più indissolubile e quando il cerchio si chiude viene lasciata fuori, lontana nello spazio e nel tempo. Al suo posto, ovvero accanto ad alcuni eroici esempi di famiglie in via d’estinzione come orsi e koala e di singoli affezionati all’anacronistica indissolubilità, ci sono una molteplicità di “esperienze solidali e pseudo-familiari” alle quali i soggetti partecipano sulla base di un’economia delle scelte dettata dal benessere reciproco.

Forse in una società longeva come la presente, la competizione naturale non è più volta a riprodursi ma a garantirsi le migliori condizioni di vita il più a lungo possibile. Il comportamento più adattivo è ovviamente quello che supera l’individualismo in una solidarietà che implica cura e sostegno di un gruppo, di una comunità, di una pseudo-famiglia in un’economia delle scelte dettata da affetto e attenzioni. Non chiamiamoli “congiunti”, se possibile, spostiamo l’attenzione dal vincolo all’impegno. La famiglia o le pseudo-famiglie necessitano adulti responsabili che si assumano oneri e scelte nell’interesse di una persona o un gruppo di persone. Corresponsabili, complici, solidali. Soggetti che assumono spontaneamente un compito, che non è un dovere scritto e che non può limitarsi alla ricerca del benessere individuale. Più che di affetti stabili, forse si dovrebbe parlare di affetti responsabili. Il concetto di “pertinenza” implicito nel termine latino si trasferisce su un piano diverso per necessità all’interno di un’epoca nella quale la domus ha perso il ruolo centrale e aggregante che aveva in passato, le unioni sono spesso caratterizzate da distanze anche transnazionali e al posto della soffitta abbiamo il cloud. Forse si potrebbe pensare a un concetto di “coinvolgimento”, che ha anche una connotazione più orizzontale e meno gerarchica.

Ciononostante la vetusta indissolubilità, se non supportata dal diritto, può continuare ad essere una categoria dello spirito. Il fatto che la legge mi consenta un comportamento non implica ovviamente che me lo imponga. Perché mai, sapendo quanto tutto sia provvisorio e relativo, dovremmo darci “per sempre” a qualcuno? Secondo quale logica dovremmo ritenere di poter sfidare la cattiva sorte o anche solo il tempo?

Per un atto di fede. Uno slancio, un salto nel buio, una scommessa, una scelta. La fede nuziale è insieme simbolo dell’unione e cerchio chiuso che segna un limite e un confine (se non una pertinenza). Quello che sta dentro il cerchio è uno spazio dinamico che si espande o assottiglia seguendo la storia della singola famiglia e può diventare un cortile aperto e accogliente o uno scantinato buio di cui si è persa la chiave.

Foto mia

Non so se davvero la Famiglia non esista più. Eppure esistono la fedeltà, l’assistenza, la collaborazione. Soprattutto esiste la possibilità di scegliere. Una gran bella responsabilità, da indossare ogni giorno al posto di un cerchio vuoto. Se scegliere ogni giorno può apparire un’estrema espressione di libertà e consapevolezza, è evidentemente anche una immane fragilità e le vittime, per lo più indifese, di continue scelte libere e liberatorie sono i bambini e i giovani che si trovano a crescere in un mondo nel quale gli “adulti” si ostinano a non voler invecchiare o cedere loro alcuno spazio né professionale né ludico, dopo aver sottratto loro quello familiare. Negli ultimi mesi abbiamo anche deciso che la scuola è meno necessaria di una pizzeria o di una discoteca e la vediamo solo come uno spazio aperto al contagio.

Che una società senza famiglia sia meno unita e solidale e non abbia a cuore il futuro, dei più piccoli e del pianeta, mi pare evidente.

Magari dopo la familia latina, dopo la famiglia indissolubile e dopo quella liquida i nostri ragazzi ci sorprenderanno con una scelta rivoluzionaria: un atto di fede e di creatività che ricomponga l’unità perduta e generi una famiglia nuova capace di essere un valore positivo aperto, paritario e moderno, ma durevole.

lunedì 15 giugno 2020

Distanziamento


In tanti hanno scritto dei diari durante la quarantena. Descrizioni a volte anche minuziose di un quotidiano ristretto e autoreferenziale, alle quali facevo fatica a interessarmi anche quando scritte da abili penne.
Adesso che la quarantena è superata e sostituita da prudenza e distanza. Adesso mi viene voglia di interrogarmi e annotare questo confronto con un mondo immutato oppure del tutto inedito.
Per qualche strano motivo, forse chiaro a psicologi e terapeuti ma a me oscuro, di fronte alla realtà fenomenica e altra mi sento spaesata e, a tratti, affaticata. Infatti, se la cifra del mio vivere in quarantena era quella dell’impegno. Un voto monastico a rispettare orari, riti, prestazioni professionali e cure familiari e domestiche; ecco, la cifra di questa nuova fase di riabilitazione alla vita è quella di una fatica interiore e anche fisica nel recupero dello spazio e della socialità. Questo lungo isolamento è stato connotato da una miscela tra una profonda introspezione e un’attenta osservazione dell’umanità e della realtà, ovviamente nella loro rappresentazione veicolata dai mezzi di comunicazione e informazione. Uno studio antropologico e sociale del quale mi trovavo a essere oggetto e soggetto insieme.
Tutto è cambiato; eppure, non per tutti allo stesso modo.
Per molti questa emergenza ha significato malattia e lutto; per alcune categorie, lavoro in condizioni di rischio ed emergenza. Su tanti si sono abbattute le spietate conseguenze della crisi economica. Per molti si è trattato di un cambio di vita, di abitudini e di quotidiano. Una reclusione forzata tra le quattro mura domestiche in un palinsesto di attività alcune smart e altre con la scopa o il mestolo in mano. C’è stata una riscoperta del nido, per chi ce l’ha, e della famiglia. Una famiglia a tratti anni cinquanta, con angeli del focolare intenti a sfornare pane e torte di mele, un po’ tribale, in una strenua difesa della capanna, a tratti contaminata da un esterno che, trovando la porta sbarrata, si è introdotto in casa dallo schermo.
Dalle nostre celle di clausura abbiamo incontrato la professoressa impegnata nella DAD con il marito che transita alle sue spalle intento a caricare la moka, il collega spettinato, con la felpa, che partecipa alla riunione seduto sul letto, la voce del bimbo che chiede come risolvere il problema di matematica, il sorriso di un amico felice di vederti, pur da lontano. Il lavoro si è impossessato del salotto, occupando un tavolo che un tempo serviva per ospitare gli amici a cena. Il lavoro, che un tempo era davvero remoto, anzi, quasi recondito, si è avvicinato e scoperto, gettando una luce su una porzione della nostra vita per lo più ignota a chi ci vive accanto. Gli insegnanti hanno visto camerette disordinate e tappezzate di foto e oggetti; gli studenti hanno fatto esperienza dei professori incorniciati da affetti e suppellettili, probabilmente più umani e, spesso, teneri ai loro occhi, nel tentativo di familiarizzare con strumenti mai sperimentati. Genitori sempre altrove si sono ritrovati sotto lo stesso tetto dei figli per un tempo lunghissimo.
Nessuno avrebbe probabilmente scelto anche solo una delle manifestazioni di questo esilio dal mondo, eppure, questa esperienza ci ha regalato consapevolezze mai intuite prima.
Di contro, il mondo si è ristretto. Hanno fatto il loro ritorno i confini e sono cresciute le distanze da interporre tra le persone. Come vittime di un’illusione ottica siamo inizialmente spariti, puntini infinitesimali perduti in una natura incommensurabile, ridotti a numero da statistica. Nel microscopio della nostra vita in cattività quel puntino si è ingigantito a dismisura, mentre il mondo si andava restringendo sempre più. E mentre fuori si riaffacciavano i confini ci siamo resi conto di non esperire più il confine del sé, confuso in un habitat sempre uguale o esercitato in un esterno ove lo spazio si espande per decreto o ordinanza, quando non per paura.
Stiamo gradualmente riacquistando spazio e incontri pur con prudenza e limitazioni, più o meno elastiche; tuttavia, questo percorso di avvicinamento è pensato per farci tornare a consumare, ma non veramente ad incontrarci ed essere vicini.
Quello che è successo è immane e chi ne nega la gravità offende la memoria dei defunti e dei malati e usa strumentalmente il malcontento per trarne vantaggio personale, tuttavia, non è accettabile trascurare le conseguenze umane e sociali oltre che sanitarie, economiche ed educative di questa epidemia.
L’essere umano acquisisce abitudini con estrema facilità e l’abitudine alla distanza e all’isolamento potrebbe lasciare tracce indelebili e difficili da curare in una civiltà già estremamente individualista e prigioniera della realtà virtuale.
Non sentivo il bisogno dei diari della quarantena, ma vorrei che ora ci fermassimo a pensare a come vogliamo accostarci all’altro nella fase di riabilitazione che abbiamo davanti.
Mi piacerebbe che questo momento fosse raccontato perché l’introspezione senza occasioni di confronto resta una vuoto mulinello. Solo nell’incontro si può conoscere anche se stessi e credo saremo tutti curiosi di sapere come siamo cambiati nel passaggio che abbiamo conosciuto. Cosa guida l’avvicinamento all’altro in questo strano tempo? Curiosità, affinità, desiderio, timore, forse, cura. Si vede tanta rabbia in giro. Quando viene meno il prossimo, fanno la loro comparsa i nemici e le contrapposizioni. Ecco, credo sia la “fase” di cui dobbiamo preoccuparci tutti.

sabato 28 marzo 2020

Deserto


Come molti cittadini esco solo per fare la spesa e gettare l’immondizia dal momento che posso lavorare da casa. MI mancano molto le mie passeggiate in collina, il paesaggio, perfino il quartiere con i suoi rumori. Tuttavia quando esco il mio solo desiderio è tornare a casa, perché soffro lo spazio urbano disumanato. Tollero con grande fatica le immagini dal drone  della mia città deserta. Una città non sono i suoi monumenti, per quanto unici ed eterni, non è il Grand Canyon o il Sahara o la savana. Una città è uno spazio antropico ed esiste solo come tale, non può e non deve essere un paesaggio da assaporare, una prateria da immaginare. E’ città solo nella misura in cui è vissuta. 

Ho sempre amato questo quadro e ne ho un poster in camera. “La città ideale” rappresenta uno spazio apparentemente inabitato anche se quella porta aperta allude ad una possibilità di incontro e accoglienza che oggi è negata. Per questo l’immagine di Papa Francesco ieri sera in preghiera nella piazza desolata ha conferito all’evento un impatto emotivo intenso. 


Il Pontefice ha scelto deliberatamente di abitare quello spazio desolato, evocando con la sua solitaria preghiera la ricerca di interiorità e raccoglimento nel deserto della quarantena di Gesù, ma anche riportando l’uomo nello spazio che gli appartiene ed esiste solo nel riconoscimento reciproco. I passi incerti di Francesco sul sagrato mi sono apparsi come una tenera carezza alla solitudine dolente del vuoto urbano.


Siamo ancora cittadini senza abitare la città? E La città è ancora tale nello scorrere ininterrotto del selciato?

Le nuove tecnologie ci asserviscono da anni, ma, in questa circostanza, ci hanno consentito di lavorare, seguire una lezione scolastica, essere informati, vedere amici e parenti segregati altrove, ascoltare concerti improvvisati. Tuttavia la polis virtuale non può che costituire un pallido surrogato dell’ambiente antropizzato e tutti siamo consapevoli del fatto che una videochiamata non è un abbraccio. 


Responsabilmente restiamo a casa isolati anche dai nostri più stretti familiari e con tristezza e solidarietà leggiamo le notizie e ascoltiamo i bollettini di questa epidemia globale che lascerà dietro di sé un mondo necessariamente mutato. Soli, nelle nostre abitazioni che sembrano non avere più un legame reale con un esterno desertificato. Prego dalla mia casa ogni giorno, ma sono grata al Papa per aver riempito con la sua preghiera il freddo vuoto di una piazza senza passi e senza voci.

sabato 7 marzo 2020

Contagio

Una storia per raccontare questi giorni o forse solo per farsi compagnia



Sara percorse gli ultimi trenta metri del marciapiede accelerando il passo. All’angolo con via Frusa incrociò un uomo e le loro spalle si urtarono. Si rese conto di non sapere veramente se fosse più infastidita per quel contatto o per aver aumentato il passo come a voler raggiungere il portone prima possibile e ritrovarsi al sicuro a casa propria, lontana da umani potenzialmente contagiosi. Provò stizza e vergogna. Si ritrovò a salire le scale stancamente senza nessuna voglia di chiudersi nel guscio.

Aprendo la porta di casa le giunse la voce di Irene. Dal tono le fu chiaro che la figlia stava probabilmente registrando un vocale per qualche amica o gruppo whattsapp. Quando si rivolgeva a lei aveva due tipi di sonorità possibili: il monotòno annoiato e sfuggente di quando rispondeva alle domande della madre o quello seccato e distante che riservava alle sue osservazioni. Quando invece parlava con le amiche o registrava a loro beneficio modulava toni ed espressioni, mutava registro, conferiva intenzione, interpretava come un’attrice consumata l’intero spettro dei possibili stati d’animo. I suoi vocali erano una raccolta caleidoscopica di emoticon sonore.

“… deve dimostrare a tutti che non le importa, dai raga è evidente. Io la ignorerei…”

“Ciao Irene!” disse Sara guardandola dalla porta della camera. La ragazza era distesa sul letto, la testa poggiata sullo zaino e con la mano teneva il cellulare davanti a sé continuando a parlare senza neanche voltarsi”.

Sconsolatamente si tolse le scarpe ed entrò in bagno a lavarsi le mani. Si tolse la camicetta e la gonna grigia che aveva indossato in ufficio e afferrò la tuta da casa. Ogni sera nel fare quel gesto le sembrava di andare eroicamente incontro al proprio destino di donna invisibile, abbandonava gli abiti curati ed eleganti per entrare nel ruolo di casalinga disperata previsto dal palinsesto serale.

Si buttò sul divano e riprese il libro di Eshkol Nevo dove l’aveva lasciato la sera precedente. Si sarebbe concessa uno o due capitoli prima di mettersi ai fornelli.

“Ciao fra!” disse Irene entrando in salotto dopo circa mezz’ora. “Cosa c’è per cena?” “Ciao tesoro. Minestrone, frittata e insalata.”

“ah”

“Hai studiato oggi?”

“No.” Rispose evaporando.

“Irene, non sottovalutare la situazione. Non siete in vacanza. Vi tengono a casa per limitare il contagio, ma non è una vacanza e non puoi permetterti di perdere scuola ed esercizio”.

La porta della camera di Irene si era già chiusa alle sue spalle e poco dopo sentì la musica impossessarsi della stanza e consentire alla ragazza di recuperare materialità nel canto e nel movimento.

La musica cessò solo quando Sara la chiamò per la terza volta per la cena. Si trovarono di fronte al tavolo di marmo della cucina. Nessuna delle due in fondo aveva desiderio di parlare. O meglio, nessuna delle due aveva voglia di essere ancora delusa.

“Ci guardiamo un film insieme stasera?”

“Probabilmente esco”

“Anche stasera? Guarda io lo sai come la penso su questo coprifuoco e sulla chiusura delle scuole. Però nelle cose ci vuole equilibrio e responsabilità. Lo Stato ha dato disposizioni e chiede la collaborazione di tutti per limitare il contagio. Non dico di chiuderti in casa, ma magari puoi evitare di stare sempre in giro e per locali…”.

Irene, senza mai smettere di fissare il telefono e digitare convulsamente, si alzò di scatto da tavola e senza degnare la madre di una risposta o anche di uno sguardo uscì e si chiuse nuovamente la porta alle spalle.

Sara sentì una fiacchezza infinita che la schiacciava, sentì il pianto arrivare, in pochi secondi le sua guance furono attraversate da silenziosi lacrimoni. Afferrò lo scottex, ne strappò un pezzo e si asciugò gli  occhi e si soffiò il naso. Buttò nel sacchetto il pezzo di carta e si diresse disciplinatamente in bagno per lavarsi le mani. Tutta questa attenzione alle secrezioni del corpo le pareva una patologia ossessiva e paranoica, l’individualismo era stato soppiantato dall’atomizzazione. Lo squillo del telefono la distolse dalle sue riflessioni. Era Fabiola: “Ciao Sara. Come stai? Allora hai visto il teatro è chiuso, niente spettacolo domani sera”.

“Non me ne parlare! Avevo anche i biglietti per “la Sonnambula”. Anche la presentazione del libro di Saverio è stata annullata. Insomma, capisco le motivazioni, ma questa sospensione della vita la trovo davvero inquietante”.

“Eh si. Io stasera vado al cinema, me ne infischio. Tutto il giorno in agenzia davanti al pc. Clienti tre. Se continua così il Palmieri mi dice di restarmene a casa e non mi rinnova il contratto. E’ meglio che esca e non ci pensi”.

“Io non ce la faccio. Le immagini dei cinema con le sedie vuote tra le persone per tenere lo spazio… non so, mi fa tristezza. Preferisco guardarmi qualcosa su Netflix. Domani dovrei pranzare con Vieri. Mi sa che resto in casa. Comunque questa situazione è irragionevole e disumana. Oggi mentre camminavo mi sembrava di essere un soldato di fanteria che schivava gli altri passanti come fossero baionette. Ho paura di come stiamo diventando”.

“Dai non privarti di un’uscita con Vieri, sei sempre così contenta di vederlo! Io dovevo vedere Federico stasera ed ho sfissato, ma il virus è una scusa. Mi sono accorta che non avevo voglia. Irene che fa?”

“Lasciamo perdere. Avvinghiata in un costante amplesso con lo smartphone. Adesso poi il virtuale è diventato la realtà sostitutiva ufficiale e approvata dalle istituzioni… hai visto anche le scuole faranno le lezioni online…”

“Mala  tempora, cara mia. Son d’accordo con te. Se cambi idea e hai voglia di un film, sedute a un metro… avvisami, ti passo a prendere, ti faccio sedere dietro...”. Fabiola rise e si salutarono.

Sara riprese a riordinare la cucina. Mentre passava il piano e le ante col detergente urtò il barattolo porta caffè di ceramica. L’avevano acquistato in Puglia. Ricordava quel giorno con limpidezza come nemmeno la giornata appena trascorsa in ufficio. Le pareva ancora di vedere la luce chiara e totale di quell’agosto. Stavano cercando un posto per mangiare ed erano già quasi le tre. Erano sfiniti e Irene mugolava sul seggiolino dietro. Giorgio ricordava una trattoria lì in quel paese e giravano da dieci minuti con l’auto nel tentativo di ritrovarla. Ad un certo punto si trovarono davanti un banco in strada che vendeva ceramiche. Sara aveva voluto fermarsi e avevano acquistato tre barattoli, sale, zucchero e caffè. Erano di ceramiche bianca con disegni color mattone e verde.

“Che è successo?” Chiese Irene entrando nella cucina. “Nooo! Che peccato!” si chinò a raccogliere i pezzi scrutando con la coda dell’occhio il volto della madre, come una bestia interiore la pena si intrufolava fin sotto la pelle e si protendeva verso Sara per ricongiungersi alla sua. Sara era sgomenta. Prese la scopa e la cassetta e raccolse i resti anche di quella memoria. Non provava niente. In effetti stava pensando che forse avrebbe dovuto ricomprarli comunque tutti e tre e cambiare barattoli, oltretutto nella nuova cucina non stavano neanche tanto bene.

Irene ripensò a quel giorno in Puglia. Ricordava la fame e la stanchezza. Ricordava come aveva iniziato a piangere, quando la madre si era fermata dal venditore di ceramiche. Ricordava di aver detestato anche il padre che gongolava felice quando la sua “ragazza” adocchiava qualcosa, era sempre pronto ad accontentare i desideri di Sara, anche i suoi capricci. Irene ricordava di essere stata perfino gelosa qualche volta. Adesso non riusciva ad immaginare la gioia pazza e insensata che avrebbe provato nel rivedere quello sguardo del padre, nel vederlo ancora adorare e viziare la sua ragazza. Anche con la nuova moglie gli piaceva fare il galante e la viziava in ogni modo, eppure Irene sapeva di non avergli mai più rivisto quello sguardo.

Sara si era buttata di nuovo sul divano col suo romanzo. La testa su un bracciolo, i piedi sopra l’altro. Scalza, come sempre. Quando Irene le passò accanto pronta per uscire, le sorrise e la ragazza buttò un bacio e proseguì: “non  torno più tardi dell’una, ciaooo”.

“Ciao tesoro! Mi raccomando fai attenzione e usalo quel gel!”

Si alzò dal divano appena Irene fu sul pianerottolo e si avvicinò alla finestra per curiosare. C’era un solo ragazzo ad aspettare Irene. Lo vide scostare delicatamente i capelli di Irene e baciarla.  Rimase ancora alcuni secondi per fissare nella memoria la tenerezza e la cura che aveva scoperto, poi si ritrasse.

Si riempì la vasca di acqua calda. Buttò la tuta nel cesto della biancheria e si immerse, chiudendo gli occhi.

Si domandava chi fosse quel giovane del quale stranamente non aveva ancora saputo niente. Ripensò che dieci giorni prima Irene le scriveva messaggi di terrore sul virus e le chiedeva di comprare la mascherine e ora se ne andava in giro tranquilla a baciare giovani sconosciuti. Pensò che quando dell’allarme e della crisi si erano impossessati gli adulti, per i ragazzi era diventata solo l’ultima convenzione e i provvedimenti governativi avevano solo accresciuto la distanza. Quale miglior modo di trasgredire se non il bacio proibito?

Indossò l’accappatoio e si diresse in camera dove trovò nuovi messaggi di Vieri sul telefono dimenticato sul comodino. Lesse divertita e rispose. Vieri collaborava con il suo studio e trascorreva metà del tempo in Belgio e metà a Firenze. Sara amava la sua compagnia e a volte ripensava divertita ai suoi messaggi e alle sue parole per giorni interi. Rimase sul letto a scrivere ridendo, poi si salutarono, d’accordo che il giorno seguente avrebbero fatto una passeggiata portandosi un panino e avrebbero trascorso qualche ora insieme evitando locali. Mise su SADE  e pensò al bacio dei ragazzi. Your love is King, canticchiva, ballando così, scalza, con la tuta da casa, una gioiosa e scanzonata voglia di trasgredire.

Sesso