Una storia per raccontare questi giorni o forse solo per farsi compagnia
Sara percorse gli ultimi trenta
metri del marciapiede accelerando il passo. All’angolo con via Frusa incrociò
un uomo e le loro spalle si urtarono. Si rese conto di non sapere veramente se
fosse più infastidita per quel contatto o per aver aumentato il passo come a
voler raggiungere il portone prima possibile e ritrovarsi al sicuro a casa
propria, lontana da umani potenzialmente contagiosi. Provò stizza e vergogna.
Si ritrovò a salire le scale stancamente senza nessuna voglia di chiudersi nel
guscio.
Aprendo la porta di casa le
giunse la voce di Irene. Dal tono le fu chiaro che la figlia stava probabilmente
registrando un vocale per qualche amica o gruppo whattsapp. Quando si rivolgeva
a lei aveva due tipi di sonorità possibili: il monotòno annoiato e sfuggente di
quando rispondeva alle domande della madre o quello seccato e distante che
riservava alle sue osservazioni. Quando invece parlava con le amiche o
registrava a loro beneficio modulava toni ed espressioni, mutava registro,
conferiva intenzione, interpretava come un’attrice consumata l’intero spettro
dei possibili stati d’animo. I suoi vocali erano una raccolta caleidoscopica di
emoticon sonore.
“… deve dimostrare a tutti che
non le importa, dai raga è evidente. Io la ignorerei…”
“Ciao Irene!” disse Sara
guardandola dalla porta della camera. La ragazza era distesa sul letto, la
testa poggiata sullo zaino e con la mano teneva il cellulare davanti a sé continuando
a parlare senza neanche voltarsi”.
Sconsolatamente si tolse le
scarpe ed entrò in bagno a lavarsi le mani. Si tolse la camicetta e la gonna
grigia che aveva indossato in ufficio e afferrò la tuta da casa. Ogni sera nel
fare quel gesto le sembrava di andare eroicamente incontro al proprio destino
di donna invisibile, abbandonava gli abiti curati ed eleganti per entrare nel
ruolo di casalinga disperata previsto dal palinsesto serale.
Si buttò sul divano e riprese il
libro di Eshkol Nevo dove l’aveva lasciato la sera precedente. Si sarebbe
concessa uno o due capitoli prima di mettersi ai fornelli.
“Ciao fra!” disse Irene entrando
in salotto dopo circa mezz’ora. “Cosa c’è per cena?” “Ciao tesoro. Minestrone,
frittata e insalata.”
“ah”
“Hai studiato oggi?”
“No.” Rispose evaporando.
“Irene, non sottovalutare la
situazione. Non siete in vacanza. Vi tengono a casa per limitare il contagio,
ma non è una vacanza e non puoi permetterti di perdere scuola ed esercizio”.
La porta della camera di Irene si
era già chiusa alle sue spalle e poco dopo sentì la musica impossessarsi della
stanza e consentire alla ragazza di recuperare materialità nel canto e nel
movimento.
La musica cessò solo quando Sara
la chiamò per la terza volta per la cena. Si trovarono di fronte al tavolo di
marmo della cucina. Nessuna delle due in fondo aveva desiderio di parlare. O
meglio, nessuna delle due aveva voglia di essere ancora delusa.
“Ci guardiamo un film insieme
stasera?”
“Probabilmente esco”
“Anche stasera? Guarda io lo sai
come la penso su questo coprifuoco e sulla chiusura delle scuole. Però nelle
cose ci vuole equilibrio e responsabilità. Lo Stato ha dato disposizioni e
chiede la collaborazione di tutti per limitare il contagio. Non dico di
chiuderti in casa, ma magari puoi evitare di stare sempre in giro e per
locali…”.
Irene, senza mai smettere di
fissare il telefono e digitare convulsamente, si alzò di scatto da tavola e
senza degnare la madre di una risposta o anche di uno sguardo uscì e si chiuse
nuovamente la porta alle spalle.
Sara sentì una fiacchezza
infinita che la schiacciava, sentì il pianto arrivare, in pochi secondi le sua
guance furono attraversate da silenziosi lacrimoni. Afferrò lo scottex, ne
strappò un pezzo e si asciugò gli occhi
e si soffiò il naso. Buttò nel sacchetto il pezzo di carta e si diresse
disciplinatamente in bagno per lavarsi le mani. Tutta questa attenzione alle
secrezioni del corpo le pareva una patologia ossessiva e paranoica,
l’individualismo era stato soppiantato dall’atomizzazione. Lo squillo del
telefono la distolse dalle sue riflessioni. Era Fabiola: “Ciao Sara. Come stai?
Allora hai visto il teatro è chiuso, niente spettacolo domani sera”.
“Non me ne parlare! Avevo anche i
biglietti per “la Sonnambula”. Anche la presentazione del libro di Saverio è
stata annullata. Insomma, capisco le motivazioni, ma questa sospensione della
vita la trovo davvero inquietante”.
“Eh si. Io stasera vado al
cinema, me ne infischio. Tutto il giorno in agenzia davanti al pc. Clienti tre.
Se continua così il Palmieri mi dice di restarmene a casa e non mi rinnova il
contratto. E’ meglio che esca e non ci pensi”.
“Io non ce la faccio. Le immagini
dei cinema con le sedie vuote tra le persone per tenere lo spazio… non so, mi fa
tristezza. Preferisco guardarmi qualcosa su Netflix. Domani dovrei pranzare con
Vieri. Mi sa che resto in casa. Comunque questa situazione è irragionevole e
disumana. Oggi mentre camminavo mi sembrava di essere un soldato di fanteria
che schivava gli altri passanti come fossero baionette. Ho paura di come stiamo
diventando”.
“Dai non privarti di un’uscita
con Vieri, sei sempre così contenta di vederlo! Io dovevo vedere Federico
stasera ed ho sfissato, ma il virus è una scusa. Mi sono accorta che non avevo
voglia. Irene che fa?”
“Lasciamo perdere. Avvinghiata in
un costante amplesso con lo smartphone. Adesso poi il virtuale è diventato la
realtà sostitutiva ufficiale e approvata dalle istituzioni… hai visto anche le
scuole faranno le lezioni online…”
“Mala tempora, cara mia. Son d’accordo con te. Se
cambi idea e hai voglia di un film, sedute a un metro… avvisami, ti passo a
prendere, ti faccio sedere dietro...”. Fabiola rise e si salutarono.
Sara riprese a riordinare la
cucina. Mentre passava il piano e le ante col detergente urtò il barattolo
porta caffè di ceramica. L’avevano acquistato in Puglia. Ricordava quel giorno
con limpidezza come nemmeno la giornata appena trascorsa in ufficio. Le pareva
ancora di vedere la luce chiara e totale di quell’agosto. Stavano cercando un
posto per mangiare ed erano già quasi le tre. Erano sfiniti e Irene mugolava
sul seggiolino dietro. Giorgio ricordava una trattoria lì in quel paese e
giravano da dieci minuti con l’auto nel tentativo di ritrovarla. Ad un certo
punto si trovarono davanti un banco in strada che vendeva ceramiche. Sara aveva
voluto fermarsi e avevano acquistato tre barattoli, sale, zucchero e caffè.
Erano di ceramiche bianca con disegni color mattone e verde.
“Che è successo?” Chiese Irene
entrando nella cucina. “Nooo! Che peccato!” si chinò a raccogliere i pezzi
scrutando con la coda dell’occhio il volto della madre, come una bestia
interiore la pena si intrufolava fin sotto la pelle e si protendeva verso Sara
per ricongiungersi alla sua. Sara era sgomenta. Prese la scopa e la cassetta e
raccolse i resti anche di quella memoria. Non provava niente. In effetti stava
pensando che forse avrebbe dovuto ricomprarli comunque tutti e tre e cambiare
barattoli, oltretutto nella nuova cucina non stavano neanche tanto bene.
Irene ripensò a quel giorno in
Puglia. Ricordava la fame e la stanchezza. Ricordava come aveva iniziato a
piangere, quando la madre si era fermata dal venditore di ceramiche. Ricordava
di aver detestato anche il padre che gongolava felice quando la sua “ragazza”
adocchiava qualcosa, era sempre pronto ad accontentare i desideri di Sara,
anche i suoi capricci. Irene ricordava di essere stata perfino gelosa qualche
volta. Adesso non riusciva ad immaginare la gioia pazza e insensata che avrebbe
provato nel rivedere quello sguardo del padre, nel vederlo ancora adorare e viziare
la sua ragazza. Anche con la nuova moglie gli piaceva fare il galante e la
viziava in ogni modo, eppure Irene sapeva di non avergli mai più rivisto quello
sguardo.
Sara si era buttata di nuovo sul divano
col suo romanzo. La testa su un bracciolo, i piedi sopra l’altro. Scalza, come
sempre. Quando Irene le passò accanto pronta per uscire, le sorrise e la
ragazza buttò un bacio e proseguì: “non
torno più tardi dell’una, ciaooo”.
“Ciao tesoro! Mi raccomando fai
attenzione e usalo quel gel!”
Si alzò dal divano appena Irene
fu sul pianerottolo e si avvicinò alla finestra per curiosare. C’era un solo
ragazzo ad aspettare Irene. Lo vide scostare delicatamente i capelli di Irene e
baciarla. Rimase ancora alcuni secondi
per fissare nella memoria la tenerezza e la cura che aveva scoperto, poi si ritrasse.
Si riempì la vasca di acqua
calda. Buttò la tuta nel cesto della biancheria e si immerse, chiudendo gli
occhi.
Si domandava chi fosse quel
giovane del quale stranamente non aveva ancora saputo niente. Ripensò che dieci
giorni prima Irene le scriveva messaggi di terrore sul virus e le chiedeva di
comprare la mascherine e ora se ne andava in giro tranquilla a baciare giovani
sconosciuti. Pensò che quando dell’allarme e della crisi si erano impossessati
gli adulti, per i ragazzi era diventata solo l’ultima convenzione e i
provvedimenti governativi avevano solo accresciuto la distanza. Quale miglior
modo di trasgredire se non il bacio proibito?
Indossò l’accappatoio e si
diresse in camera dove trovò nuovi messaggi di Vieri sul telefono dimenticato
sul comodino. Lesse divertita e rispose. Vieri collaborava con il suo studio e
trascorreva metà del tempo in Belgio e metà a Firenze. Sara amava la sua
compagnia e a volte ripensava divertita ai suoi messaggi e alle sue parole per
giorni interi. Rimase sul letto a scrivere ridendo, poi si salutarono, d’accordo
che il giorno seguente avrebbero fatto una passeggiata portandosi un panino e
avrebbero trascorso qualche ora insieme evitando locali. Mise su SADE e pensò al bacio dei ragazzi. Your love is
King, canticchiva, ballando così, scalza, con la tuta da casa, una gioiosa e
scanzonata voglia di trasgredire.