domenica 17 dicembre 2017

Esprimersi

L'espressione di sé è un tema molto popolare tra psicologi, psicanalisti e pedagogisti e anche direi fra non addetti ai lavori. Si tratta ovviamente di cosa sacrosanta che non voglio minimamente demolire proprio io che sostengo la necessità di verità e consapevolezza. Quello che mi lascia perplessa è che un atto di libertà e sincerità possa in effetti essere viziato da un malinteso di fondo. Il malinteso è la cornice di individualismo ove si realizza questa rivelazione di interiorità.

Esprimere deriva da spremere e mi pare non necessiti spiegazioni. Questo tirare fuori, presuppone quindi un "fuori", il vero agente del processo. L'espressione si realizza nella reciprocità, come scambio, stimolo, dare e ricevere. Questo è profondamente vero quando cerco di manifestare il mio pensiero all'uomo che amo o a mia figlia, ma non lo è di meno se il "fuori" è più vasto e variegato, come ad esempio coloro che leggeranno questo blog. Pensiamo, per fare un esempio più illustre ad artisti come la Abramovic e al senso che avrebbero le loro rappresentazioni prescindendo dalla relazione con il pubblico.
Ogni spremitura diviene rivelazione solo nel momento in cui è raggiunto l'interlocutore, altrimenti non è espressione ma paranoia.

Sempre più spesso mi trovo a pensare che questo malinteso sia all'origine di buona parte del malessere che affligge la nostra società. In tempi nei quali tutto è lecito la potenza liberatoria dell'espressione dell'interiorità sembra quasi aver mutato di segno.

Spezzare legami o infrangere tabù e regole imposte non realizza la rivelazione, né libera alcuna energia rimanendo l'espressione sempre confinata agli angusti limiti dell'individuo.

Mia figlia è andata all'asilo quando aveva un anno e mezzo. In quel periodo il suo carattere subì una naturale trasformazione originata dal confronto, anche acceso, con gli altri bambini. Iniziò ad essere possessiva, gelosa delle sue cose, gridava spesso "E' mio!", qualche volta era anche prepotente. Non mi sembrava più lei. Chiaramente doversi contendere un giocattolo o l'attenzione di un'educatrice, dover pazientare in fila per avere la pappa o essere presa in braccio, doversi confrontare con altri bambini, a volte passando per un conflitto, hanno inciso in questa sua metamorfosi. Da uno spazio autoreferenziale dove ella si trovava al centro delle attenzioni di un esercito di adulti adoranti pronti a soddisfare ogni suo bisogno, era passata ad una realtà nuova e frustrante dove imparava che la soddisfazione dei bisogni non è un automatismo.
Ho dimenticato di aggiungere una cosa, Anna si svegliava la domenica mattina e mi chiedeva "ma oggi non si va a scuola?" e metteva il broncio quando le dicevo "no". Chi l'avrebbe mai detto che in una fase pre-sociale e in un contesto che le generava anche frustrazioni una piccolina di due anni desiderasse andare anche la domenica. Forse perché in quel confronto realizzava l'espressione di sé più che al centro di una galassia di adulti essendo costretta a modularsi su quel "fuori" meno condiscendente.

A volte mi imbatto in articoli sull'età evolutiva che propongono approcci deregolamentati all'istruzione e alla formazione per consentire lo sviluppo pieno e libero di quel sé che deve esprimersi, come se fosse un monolite assoluto e cristallizzato piazzato da qualche parte all'interno degli individui in attesa di essere spremuto, come se non si formasse proprio dentro il limite e nel confronto, come se non si modulasse sul soggetto al quale rivelarsi, come se non si rivelasse allo stesso individuo proprio nella relazione e nella reciprocità.

Quando mia figlia ha iniziato a dire "E' mio!" ero quasi infastidita.. poi mi sono abituata e anche lei ha capito che non era tutto suo e tutto per lei. Adesso che ha quasi sedici anni e per affermarsi mi attacca e mi nega, faccio fatica, a volte reagisco pure male sfiancata dalle discussioni e dall'atteggiamento di sfida. Spero che nel confronto che abbiamo le si riveli il sé che cerca faticosamente di definire come tutti gli adolescenti.

Mi è meno facile capire le persone della mia età che si mettono al centro della giostra e cercano la perenne soddisfazione di bisogni. Mi è quasi impossibile capirli quando per affermarsi sentono il bisogno di negare gli altri. Credo che questa abusata espressione del sé possa rivelarsi una trappola involutiva. Nella negazione dell'interlocutore si nega anche ogni possibile espressione della propria personalità e interiorità. Un'importante acquisizione del ventesimo secolo sta diventando la patologia del ventunesimo.

La nostra interiorità si rivela solo grazie agli altri, a quello che leggiamo, alle parole che ascoltiamo e che diciamo interagendo, a quello che vediamo guardandoci intorno. L'espressione è tale se viene accolta e raccolta, ed è adulta se nasce a sua volta da un accoglimento e non da una negazione.

Esprimiamoci pure ma cerchiamo non la soddisfazione di bisogni individuali ma la rivelazione dei veri bisogni che possono nutrire le relazioni della nostra vita.


domenica 10 dicembre 2017

Delusione

Il vocabolo che mi risuona oggi è strettamente connesso con il tema della scorsa settimana e ne è una possibile conseguenza. Quante volte nella vita le nostre attese vengono deluse... quante volte sentiamo tradita la nostra fiducia, la nostra speranza.

Eppure, nel momento stesso in cui utilizziamo la parola delusione per esprimere questo tradimento e la disperazione e il vuoto che ne conseguono, in quel momento ci accorgiamo che la parola che ci risuona dentro è quella che ha generato il nostro sconforto attuale: illusione.

L'illusione è inganno, percezione distorta della realtà, menzogna. Amiamo credere vero ciò che desideriamo, ma è pur vero che ciò che non è reale non può avverarsi per definizione. Nella delusione ci inganniamo ancora una volta, come nell'illusione precedente.

Come salvaguardare attesa, speranza, fede e scongiurare inganno e illusione? Liberandoci da pregiudizi. Abbandonandoci ad un'attesa che è apertura all'altro, non applicazione all'altro dei nostri canoni. 

Non è possibile vita senza speranza e, come dice un amico, non si può eliminare l'alea. Sarebbe quindi saggio essere consapevoli dell'inganno al quale ci abbandoniamo, del sogno nel quale fluttuiamo sospesi, dell'aleatorietà di un risultato che può non corrispondere minimamente all'aspettativa iniziale. 

Senza illusione non vi è delusione. Questa semplice equazione ci dice perché non dobbiamo sentirci traditi se non da noi stessi. Non possiamo fare a meno di sperare, di credere, di amare, ma dobbiamo dare a questi sentimenti spessore e verità e non depotenziarli trasformandoli in inganno. Dobbiamo credere nel loro potenziale creativo. Una realtà immaginata è possibile solo se la si costruisce non certo se la si ritiene vera. 

Per la stessa ragione dobbiamo accogliere la delusione del fallimento, la fine del sogno sognato non con amarezza ma con vero dispiacere. Il dolore ci aiuta con la sua violenza a ritrovare la speranza; l'amarezza e la delusione ci rendono passivi spettatori della nostra vita, eternamente traditi dagli altri, vittime vere di noi stessi. 

Delusione è parola divisiva, serve per dire "tu mi hai tradito", dispiacere è parola costruttiva vuole esprimere la stessa pena senza disperdere fiducia e speranza. Riconoscendo le ragioni dell'altro.

Coltivare attesa e speranza ma non illusione. Affrancarsi dall'amarezza della delusione, dal gelido e mortale giudizio, dall'insidioso pregiudizio. Avere il coraggio per vivere i nostri sogni e la forza per affrontare le nostre sconfitte.

Sono stata delusa nella mia vita e, certamente, ho molto deluso. Forse proprio per questo conosco l'amarezza della delusione, il tradimento, la disillusione, la sconfitta. Una cosa l'ho imparata, sentirmi delusa non mi fa stare meglio, giudicare, assegnare responsabilità  ed emettere sentenze non mi aiuta a ricostruire la speranza.

Tuttavia voglio continuare a sperare, a credere e a vivere; chissà quante volte ancora mi dovrò ingannare, chissà se adesso riesco a non farmi illusioni, a dare voce e spazio al bene fuggendo i sogni.

So che riesco a dare fiducia a me stessa, al mio potere creativo, alla realtà che cerco di guardare con attenzione sperando e illudendomi di riuscire un giorno a vederla così com'è.

domenica 3 dicembre 2017

Attesa

Affrontare un tema come l'attesa per me costituisce una vera sfida. Diciamo che la pazienza non è una qualità che mi viene proprio naturale. Sono una persona puntuale e, come tutte le persone puntuali, condannata a lunghe e immeritate attese. Mi sembra di non avere mai abbastanza tempo e detesto quando gli altri decidono per me come devo usarlo facendomi aspettare. 
Con questa premessa potrei anche fermarmi qui e stabilire che l'attesa sia una condizione subita e non scelta e, come tale, una violenza, un momento di malessere nel rapporto con se stessi e con gli altri.

In effetti non è questo il mio proposito. Voglio parlare dell'attesa come approccio e come scelta. Un'attesa non riconducibile ad un fatalismo che fornisce un alibi all'incapacità di prendere decisioni, ma dettata da una volontà precisa e consapevole di voler maturare le proprie scelte modellandole su bisogni reali e profondi e non su impulsi del momento e finti bisogni indotti.

Tempo fa mio cognato mi raccontava di come da ragazzino avesse a lungo messo da parte i risparmi per acquistare un binocolo e di come poi avesse alla fine lasciato il binocolo nella vetrina del negozio felice di aver raggiunto il suo obiettivo ma realizzando di non averne veramente bisogno.

Questa è l'attesa che ho imparato con dolore e fatica ma che mi ripaga di una consapevolezza chiara e di un senso profondo di quelle che sono le mie motivazioni.

L'attesa è la grande assente dell'attualità. Tutto si consuma in pochi istanti e uso il verbo consumare perché di ciò che popola il nostro quotidiano spesso non rimane niente. Le nuove tecnologie hanno stravolto tempi e modalità di approccio al mondo esterno. Siamo sempre, perennemente connessi, bombardati di informazioni (spesso fake, post-vere, inutili). Siamo sempre a disposizione degli impulsi che ci governano da fuori e sempre meno in contatto con noi stessi.

Quando ero ragazzina e a scuola ci davano da fare una ricerca  questo si traduceva nel cercare libri sull'argomento, a casa o in biblioteca, nell'utilizzare l'enciclopedia e collegare i contenuti trovati a quanto studiato sui libri di scuola. Il lavoro richiedeva tempo e impegno e quell'attività di recupero e rielaborazione di dati poteva veramente significare un'acquisizione di maggiori capacità e conoscenze. Le ricerche fatte da mia figlia alle medie sono state, a mio avviso, una colossale perdita di tempo, un copia e incolla di contenuti presi da fonti non necessariamente attendibili trovati sul web grazie ai cosiddetti "motori di ricerca". Chissà perché si chiamano così; in effetti, a pensarci bene, generano un vero spostamento della ricerca, un moto dall'interno verso l'esterno. La ricerca non è più nostra, non siamo noi gli agenti, i motori, noi siamo meri utenti che trovano risultati scelti da altri che decidono cosa mostrare e cosa no.

I social, così rassicuranti con le loro risposte immediate e i loro like fingono di esaltarci e darci valore quando in realtà ci usano a fini commerciali. Il pullulare di corsi universitari e master in web marketing dovrebbero farci riflettere, così come le informazioni  che ci vengono rubate e utilizzate poi per proporci contenuti su misura o quasi.

Quello che ci viene proposto raramente soddisfa un nostro reale bisogno, si tratta per lo più di bisogni indotti, ineliminabili nella società dei consumi, ma ritagliati sulla base dei nostri profili, della nostra schedatura web.
Spesso questi bisogni ci sembrano così reali, perché così vicini ai nostri interessi, che ne sentiamo l'urgenza, magari alimentata da un'offerta imperdibile che sta per scadere. Con un click acquistiamo in pochi istanti qualcosa che ci verrà recapitato e di cui non sappiamo l'origine e solo più tardi ci accorgiamo che avremmo potuto benissimo farne a meno (pensiamo a quello che è successo il giorno del black friday). 

Nel mio lavoro lo strumento principale è la posta elettronica. Arrivano continue email e si è continuamente distolti da quello a cui si stava lavorando costretti a spostare l'attenzione altrove, non necessariamente su questioni più urgenti. Questa dissociazione è divenuta una condizione del vivere quotidiano e si necessita di grande equilibrio per rimanere connessi ai nostri veri bisogni, alle nostre priorità. 

Ecco che l'attesa ci aiuta a costruirci gli anticorpi, a rimanere connessi con la nostra interiorità e i nostri principi, a stabilire le priorità e rimanere focalizzati su quelli che sono i nostri veri bisogni come esseri umani e non come consumatori o naviganti a caccia di like.

La parola attesa ha una connotazione positiva, c'è nell'attesa la speranza, è aspettativa. Non è mai subita, è invece sempre espressione del soggetto che attende e che tende verso una meta. 

Attesa agìta e costruttiva contro la distruzione del consumo istantaneo.


domenica 26 novembre 2017

Maleducazione

Non sono mai stata una fanatica delle buone maniere. Da buona toscana ho sempre dato la priorità a verità e schiettezza e ho spesso sospettato dell'eccessiva affettazione. Insomma, mi capita di avere il babbo a pranzo e, magari, non sempre lo servo per primo, anche se è il più anziano,e non faccio, come diciamo noi, tanti complimenti. Ecco, anche io sono maleducata, questo volevo dire. Certe volte manco di salutare qualche collega che incrocio nell'edificio, certe volte interrompo chi sta parlando.

La maleducazione cambia ovviamente con il soggetto che la giudica, la subisce o la pratica. Quindi, non essendo un valore condiviso, la sua definizione o, meglio, la sua manifestazione può non essere uguale per tutti.

Ho fatto una ricerca su twitter digitando #maleducazione. Gli utenti twitter con età tra i 18 e i 29 anni risultano essere il 37%. Non è un social "giovane" come instagram o snapchat ma mi sento di poter dire che vi si trovino pochi anziani. Mi interessava capire cosa significhi maleducazione non solo per la mia generazione ma anche per i nostri figli.

Il primo posto della maleducazione denunciata lo guadagnano i comportamenti sui mezzi di trasporto, in particolare i tweet registrano telefonate ad alta voce in treno o piedi e anche scarpe sui sedili, al secondo posto gli automobilisti che parcheggiano ovunque o accelerano alla vista del pedone e al terzo i vicini rumorosi. Situazioni che conosciamo tutti bene e sulle quali ritengo ci possa essere un discreto margine di condivisone anche tra generazioni diverse, come sul linguaggio volgare o i veri e propri insulti.

Si trova anche qualche denuncia, a mio avviso, più soggettiva; ad esempio qualcuno si lamenta delle mamme che su autobus o metro non chiudono il passeggino. Comportamento in effetti contrario alle regole del mezzo di trasporto ma che, in qualche caso mi sento di giustificare perché da sola, con un bimbo piccolo e, magari, un paio di borse, aprire e chiudere un passeggino su un autobus può andare vicino  a un percorso ai giochi senza frontiere. Ho trovato anche un caso di soggetto infastidito dai #vecchichevannoacamminare #maleducazione, confesso di non avere capito per mio limite l'oggetto della denuncia, ma ho subito pensato al babbo che esce eroicamente ogni giorno e quando sente arrivare un trolley si appiattisce al muro per paura di essere travolto da qualche giovane trafelato. 

Esiste quindi la maleducazione percepita (come le molestie percepite recentemente al centro dell'attenzione della cosiddetta opinione pubblica), un alone di soggettività ha evidentemente trasformato una materia un tempo oggetto di severe norme sociali e codificata in veri e propri manuali.

Quando alla radio ho sentito la Preside del Liceo Virgilio di Roma che, di fronte a comportamenti quali occupazione della scuola con organizzazione al suo interno di festini a pagamento aperti ad esterni, sesso in classe e pure due bombe carta, parlava di "segnali", ho provato pena e rabbia. Pena per un'istituzione ormai destituita di ogni valore e rabbia perché i cosiddetti segnali a me sembrano reati passibili di denuncia e trovo che chiamarli segnali sia una triste sconfitta.

La preside della scuola che frequenta mia figlia l'anno scorso ha emanato una circolare che non solo vietava l'uso dei cellulari, ma anche dei chewing gum, e imponeva agli studenti di "salutare" i professori all'interno dell'edificio. Sono rimasta stupita, mi pareva quasi un eccesso di zelo. Poi ai colloqui una professoressa mi ha detto che a volte mia figlia masticava la gomma in classe. Mi è molto dispiaciuta l'immagine della mia creatura che rumina mentre un'insegnante sta spiegando. Le ho detto di smettere. Non l'avevo mai fatto prima; ma è giusto dare per scontato che "certe cose non si fanno"? 

Forse ci vorrebbe un Giovanni Della Casa youtuber o influencer, ci vorrebbe un manuale aggiornato con la sezione social network e smartphone, perché a limitarne l'uso ci posso anche riuscire, a non farlo usare a tavola pure, ma se le regole non sono condivise e se al ristorante, tutti, grandi e piccini, guardano uno schermo invece di guardarsi in faccia è difficile che una tale posizione non sembri soggettiva. 

Le buone maniere ai tempi di wathsapp, ecco lo chiamerei così. Forse dovremmo leggerlo prima noi adulti, sperando di trovarci scritto che se ricevi una telefonata e non puoi rispondere, richiami. Se ricevi un messaggio, rispondi. Quando comunichi usi formule stantie  ma ancora significanti tipo, buongiorno, grazie, prego, scusa e non solo faccine che mi comunicano, forse, la tua emozione ma magari non la risposta alla domanda. Insomma i social media sono per l'appunto mezzi di comunicazione e come tali devono essere utilizzati. Si comunica sempre con gli altri. 

Ho iniziato a tenere questo blog per comunicare. L'ho chiamato Vocabolario Solitario perché volevo parlare delle parole che risuonano nelle mia vita, spesso solitaria. Scrivere mi piace e mi dà modo di chiarire a me stessa il mio pensiero ma ovviamente il mio desiderio è di comunicarlo ad altri.

La società dei consumi ci ha portato ad un individualismo estremo e disperato, nel quale ognuno cerca solo di realizzare un proprio singolare disegno, di esprimersi in totale libertà senza vincolo alcuno. Non so come si possa superare questa grave regressione umana ma credo che le buone maniere potrebbero essere d'aiuto abituando a ricordare l'esistenza e la presenza dell'altro, la sua dignità, il rispetto che gli dobbiamo. 

Se le buone maniere possono, in una certa misura, rappresentare qualcosa che ho spesso giudicato falso, credo che il rispetto che ci insegnano sia una cosa alta e sacra. 


sabato 18 novembre 2017

Imparare

Di recente  ho ripensato ai mesi trascorsi in Germania quando avevo vent'anni. Abitavo presso una famiglia che mi aveva ospitato con slancio e generosità e ho spesso pensato a Frau Krüzner e alle nostre conversazioni. Ogni sera tornava dal suo negozio di antichità e mentre prendevamo un tè o semplicemente sedevamo lei mi chiedeva "Was hast du heute erlebt?" ogni sera. La domanda non significa banalmente: cosa hai fatto oggi, erleben difatti è un composto del verbo leben, e il suo significato è quello di vivere qualcosa, fare esperienza, conoscere. Il fare esperienza si traduce anche con erfahren ma la presenza della "vita" in questa espressione implica un'esserci, un'essere presenti e consapevoli. Nel rispondere io cercavo sempre di trovare la mia presenza in ciò che avevo esperito, quello che in quella giornata avevo capito, consapevolizzato, imparato.

Elizabeth Krüzner era una donna non comune. Non ho mai smesso di pensarla e di ripensare a quella domanda molto socratica e profondamente bella. Ho pensato a come quella domanda mi costringesse ad andare oltre la superficie delle cose, a come in quella cucina, tutto quello che era stato e che ero stata assumeva un valore diverso e superiore. Mi piacerebbe essere una madre come Elizabeth, a volte, in rari momenti, credo di riuscirci, per lo più quello di cui faccio esperienza sono i miei limiti. Però farsi certe domande ogni giorno aiuta anche a trovare il proprio valore oltre ai propri limiti.

Tutti quanti siamo più o meno consapevoli del fatto che le esperienze dolorose, le perdite, i fallimenti si rivelano spesso momenti chiave delle nostra vita, momenti nei quali impariamo, vale a dire acquisiamo nuove conoscenze e capacità, qualcosa che non avevamo prima, in sostanza cambiamo. Una delle molte frasi o citazioni che girano sul web è: " a volte si vince, a volte si impara" ne ignoro la paternità ma la trovo molto efficace e il proverbio "sbagliando si impara" a me è stato ripetuto tante volte, molte di queste dalla mamma, e io stessa lo ripeto a mia figlia.

La riflessione che volevo fare oggi però non è legata tanto al potenziale di insegnamento che si trova nelle sconfitte e nel dolore, ma alla possibilità reale di imparare ogni giorno.
"Gli esami non finiscono mai" si intitola una commedia di Eduardo, ma è possibile passare gli esami senza aver studiato? Io non credo. Essere presenti e consapevoli, essere attenti, aperti e domandarsi ogni sera cosa abbiamo imparato aiuta a correggere alcuni errori, a misurare le proprie capacità come esseri umani, a trovare il nostro valore. 

Questo verbo che sposa vita e conoscenza è portatore di un senso profondo del nostro esserci, che non può mai essere separato dalla coscienza, dalla consapevolezza e  dall'attenzione con le quali "ci siamo". Come si possa realizzare questa consapevolezza è meno facile da dire e da comprendere, e non ho ricette. Per certo è necessario essere presenti e distanti insieme. Partecipare ma anche guardarsi con distacco per poter riconoscere la natura della nostra partecipazione. Il ruolo degli altri è determinante nel raggiungimento di quel distacco da sé; la domanda di Frau Krüzner mi costringeva a guardare al mio vissuto da un diverso punto di vista, e gli altri sono sempre portatori di un diverso punto di vista e quindi di stimoli e anche di maggiori possibilità di distanza dal proprio. Si impara con le domande più che con le risposte.

Mi piace pensare alla vita come alla scuola, un luogo di opportunità e possibilità, di conoscenza dove esserci significa umiltà, attenzione e consapevolezza ma anche lavoro e fatica e impegno. Mi piace pensare che serva tanta umiltà anche per vivere, che serva ascoltare e, magari, prendere appunti.

domenica 5 novembre 2017

Acqua

Sarà perché è una domenica di pioggia, sarà che in questi giorni a Firenze si ricorda l'alluvione. Forse anche un po' perché ho appena finito di leggere "Ogni cosa è illuminata" di Jonathan Safran Foer e il fiume e la cascata cessano di far parte del paesaggio e diventano storia, storia personale, vissuto e interiorità. Forse perché nuoto e mi piace farlo. Comunque oggi mi interrogo sul significato dell'acqua per me.

da "Il gusto del cloro" di Bastien Vivés
Se andate a cercare la definizione di acqua, io l'ho fatto sul vocabolario Treccani, troverete una lunga lista di espressioni, proverbi, modi di dire, costruiti intorno a questa parola. E' incredibile, secondo me, ma tutti hanno una connotazione negativa: essere in cattive acque, sentirsi un pesce fuor d'acqua, annegare in un bicchier d'acqua. Tale significato è riconducibile al suo connotato terrestre e naturalistico. Ovviamente non discuto che l'acqua sia un ambiente, né fatico a comprendere che disastri e inondazioni per chi vive sulla e della terra ovvero il pericolo del mare per chi vive del mare, abbiano costruito un immaginario di pericolo. Stranamente questo prevale molto su quello positivo di nutrimento indispensabile al nostro organismo. Le Scritture ci raccontano il diluvio universale ma anche la Samaritana al pozzo e il dar da bere agli assetati.

L'acqua è vita, prima di tutto. La vita ha avuto origine dall'acqua. Il nostro organismo è fatto di acqua. I nostri primi nove mesi di vita li passiamo nell'acqua.

Ovviamente l'acqua è anche pericolo e morte, il mare del pescatore è sostentamento e vita e pericolo insieme. Le inondazioni e la pioggia per gli agricoltori sono necessarie e fatali insieme.

Questo essere una cosa e il suo opposto, questo assumere forme diverse e stati della materia diversi, fa dell'acqua un elemento simbolico potente, sempre in trasformazione. Mi viene da pensare che ilsuo potenziale di mutamento abbia inciso nel costruire questo immaginario negativo. I cambiamenti fanno paura, da sempre, a tutti.

Quando entro in piscina, il solo contatto con l'acqua rappresenta per me un momento di piacere e di rivelazione. L'acqua accoglie il mio corpo e lo accarezza, attraverso il contatto con essa io lo scopro. Trovo i miei confini e sento la mia fisicità e il suo rapportarsi con l'ambiente esterno.
Mentre nuoto continuo a pensare senza mai smettere di nuotare e respirare in ascolto dell'acqua e del suono delle mie braccia.
Attraverso l'acqua contatto me stessa e mi sento parte di un ambiente ma con la precisa consapevolezza dei miei confini e del mio movimento, della mia voce in quell'ambiente. Una sensazione di armonia che non sempre riesco a provare.

Ecco l'acqua per me risuona, risuona di me, mi regala un perimetro, mi offre uno specchio, sostiene il mio peso, mi avvolge.

Avere consapevolezza del proprio corpo è il primo necessario passaggio per guardare a sé stessi e alle proprie emozioni e pensieri con la distanza giusta per attraversarli e viverli senza esserne schiacciati.

Sarà perché amo le domeniche di pioggia.

martedì 31 ottobre 2017

Tapas

Devo subito premettere che non parlerò degli sfiziosi spuntini iberici e che, per quanto ami cucinare, questo non è, nelle intenzioni, un blog di cucina. Tuttavia, forse proprio perché considero il cucinare un rito e un impagabile gesto d'amore, spesso uso la parola ricetta anche quando faccio riferimento ad aspetti della vita che, pur incrociando anche i fornelli, occupano una scena più vasta.

Ieri sera , al corso di meditazione che sto frequentando, ho appreso che tapas è un vocabolo sanscrito traducibile con ascesi, calore, sacrificio, servizio.
Il docente, padre Bormolini, ha anche aggiunto che "non c'è vero amore senza servizio".

Credo fermamente che abbia ragione ed ha espresso una delle convinzioni che ho maturato crescendo. La prima persona che mi viene in mente e che nella mia vita mi ha dato vero amore è mia madre e non è un caso, la maternità implica una cura e una dedizione che sono necessarie anche se non necessariamente spontanee e consapevoli. Il piccolo nasce dipendente e la madre non può sottrarsi a questo dovere di cura. Non è per niente scontato che questa cura si realizzi con naturalezza e gioia, anzi, sappiamo bene come il periodo dopo la nascita di un bambino sia sempre molto faticoso, in alcuni casi un momento di profonda crisi e depressione. La cura, il servizio, anche quelli necessari e dovuti non sono mai semplici e idilliaci. Se non è facile mettersi al  servizio di una piccola creatura che ci appartiene, è comprensibile che lo sia ancora di meno nei confronti di coloro che amiamo ma che non dipendono da noi.

 Ecco che questa parola antica con una connotazione religiosa e mistica molto forte sembra offrirci un aiuto per costruire la ricetta dell'amore. Ci propone degli ingredienti, ma anche e soprattutto un metodo. Quello della disciplina ascetica e monastica, dello sforzo teso al raggiungimento di un ordine superiore. La gratuità dell'amore e il sacrificio divengono così Regola laica in grado di guidarci.

Internet è un'inesauribile fonte di informazioni e, incuriosita da questo vocabolo, mi sono messa alla ricerca. Ho trovato interessanti siti dedicati al sanscrito alla sua fonologia e grafologia.




Per i conoscitori dell'oriente e delle sue religioni o pratiche questi segni non sono nuovi.

La caratteristica della grafologia che mi ha colpito è come sia sempre presente la riga orizzontale sopra, a volte anche la linea verticale a fianco.

In questa grafia è, in sostanza, evidente una sorta di limite, di confine.

Pensando al misticismo induista, ma più in generale al misticismo tout court direi che senza il limite non vi può essere trascendenza, senza la siepe di Leopardi non vi sono interminabili spazi. Senza una regola, una disciplina, una cura non vi è amore.


lunedì 30 ottobre 2017

Momenti Diversi

Ora che mi sono riservata uno spazio da dedicare alla scrittura, mi piace condividere qui la mia raccolta di poesie.

http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/poesia/352784/momenti-diversi/

Perché un blog

Da sempre la lettura ha accompagnato la mia vita e la mia crescita. Forse non posso dire che alcuni libri abbiano cambiato la mia vita in senso assoluto e radicale, per certo però hanno cambiato il mio vivere nel momento in cui li leggevo e l'eco di molti di questi ha continuato e continua a risuonare dentro di me.

Ci sono persone che per trovare se stesse viaggiano e fanno esperienza del mondo e degli altri; confesso che questa categoria è la sola in assoluto per la quale io provi autentica invidia. Non potendo conoscere il mondo in modo così terreno ho cercato di immaginarlo fin da bambina. C'è stato un periodo, intorno ai dodici anni più o meno, nel quale ero affascinata dall'archeologia e sognavo grandi scoperte come la tomba di Tutankhamon o il pozzo di Chichen Itza. Quello che davvero mi affascinava non era la Storia con la S maiuscola, ma le storie, il mistero di ciò che si nasconde dietro, la narrazione delle cose e delle vite altre dalla nostra.

A quell'età mi capitava di inventare storie e di scrivere nel giornalino della scuola. Adesso che sono cinquantenne e compongo da anni lettere e poesie,con lo scopo di capire la mia storia e di comunicare con le persone che ne fanno parte, adesso, so con certezza, che la scrittura e la lettura hanno segnato  profondamente la mia esperienza di vita, mi hanno aiutato a capire, a ricordare, a piangere senza singhiozzi con una sintassi che da un lato mi libera e dall'altro mi sostiene.

La scrittura e la lettura sono risorse insostituibili e il web non è solo lo spazio della narcisistica esposizione di sé, del proprio corpo, del proprio istinto e del livore incontrollato. Può essere anche lo spazio per dire, ragionare, trasmettere, comunicare. Navigare, viaggiare, mettersi in cammino, per trovare e trovarsi.

I nostri adolescenti, i cosiddetti nativi digitali, hanno perso il contatto con la lettura e la scrittura e,  spesso, anche con il semplice linguaggio. Ho scritto tante lettere a mia figlia, le ho confezionato un libro fotografico quando ha compiuto quattordici anni, le ho dedicato le  mie poesie. Mi piacerebbe che sul web trovasse anche quello che vi trovo io, letture, storie, quadri, musica, cinema. Vorrei che la rete che ci cattura fosse una specie di decamerone dove si parla e si ascolta.

Occupiamo la rete con le nostre riflessioni e lasciamo gli slogan ai pubblicitari che, come osserva giustamente Antonio Polito nel suo libro "Riprendiamoci i nostri figli", hanno come vittime e bersagli privilegiati proprio i nostri bambini e ragazzi.


Sesso