domenica 25 marzo 2018

Casa


Sono seduta davanti al pc nel soggiorno del mio appartamento e osservo una pagina bianca dove ho scritto la parola casa; quello che vorrei è chiarire a me stessa che cosa significhino queste quattro lettere per me veramente e in quale misura nella mia vita possa averle declinate nella forma sbagliata arrivando a sentirmi fuori posto proprio nel luogo al quale avrei dovuto appartenere.

In effetti il fatto di sentirmi fuori posto mi ha accompagnato per lunga parte del mio percorso e in contesti  anche molto diversi. Fin da ragazzina ho sempre avuto la convinzione che “nella mia casa” avrei finalmente sentito di essere al posto giusto. Immaginavo la casa come il nido, dei confini appena più vasti, ma non di molto, di quelli della mia persona.

Da allora di case ne ho cambiate tante e sono cambiata anche io e mi sento un po’ come Alice nella casa del Bianconiglio: troppo piccola o troppo grande dentro confini che non combaciano mai con il mio profilo.

Ci deve essere un equivoco di base legato al significato che diamo alla parola casa. Accanto al significato di edificio, abitazione vi è un’accezione del termine che sposta la sua sostanza ad un livello soggettivo ed emotivo per niente legato a mattoni e cemento. Il sentirsi a casa, essere di casa, giocare in casa ci trasmettono un’idea di familiarità, di ciò che conosciamo e che ci conosce, di cui siamo parte. Una sorta di ventre materno che però non dobbiamo lasciare per nascere e nel quale ci sentiamo sicuri e riconosciuti. Tuttavia mi pare che di questa casa non sia così scontato avere le chiavi.

 In inglese due parole diverse: house e home,  distinguono l’edificio e la casa emotiva e la parola home ha la stessa radice dello heim tedesco con il quale si è formata anche la parola Heimat (patria). I tedeschi hanno due termini per dire nostalgia e una di queste è per l’appunto Heimweh che rappresenta proprio la pena che si prova per la mancanza della casa d’origine, della propria terra, di ciò a cui apparteniamo. Questa casa ha una connotazione tutta culturale e molto legata alla cultura occidentale. Immagino che popolazioni nomadi o culture animiste abbiano metafore diverse per rappresentare familiarità, desiderio, bisogno di appartenenza.

Sicuramente le nostre origini ci determinano in buona parte e la memoria, i sapori, gli odori e soprattutto le parole della nostra vita costituiscono i mattoncini dell’edificio di questa nostra piccola patria. E’ anche vero che non sempre ci riconosciamo nelle nostre origini, molti non si riconoscono nemmeno nelle proprie scelte, ma sicuramente non è sempre scontato sentirsi a casa nella casa che la vita ci ha dato e a volte non ci si sente a casa neanche in quella che abbiamo costruito e i ricordi non sono mattoni di una solida costruzione ma fantasmi che si aggirano tra le macerie.


Tra la casa esteriore e la casa interiore non può quindi esservi corrispondenza se non episodica e, forse, casuale. Tra apparenza e sostanza si possono percepire legami più o meno marcati ma non vera coerenza.

Non so ancora come sarà la mia prossima casa e mi diverte immaginarla e immaginarmi nella mia nuova vita. So che mi assomiglierà e mi corrisponderà, ma solo in parte e solo a tratti, so che sarà strumento della mia vita ma non la mia vita.


Prendo in prestito una delle affascinanti visioni di E. Hopper e penso che la mia casa avrà finestre e porte dalle quali entrerà la luce e dalle quali potrò guardare fuori e oltre. Perché per crescere e vivere la casa si deve lasciarla.

sabato 3 marzo 2018

Scrivere


Parlare di cosa sia per me la scrittura all’interno di un blog che ho aperto proprio per impegnarmi a scrivere con costanza potrebbe costituire una sorta di post fondante, lo statuto dl vocabolariosolitario. In effetti non sono proprio sicura che sia così. Proverò a spiegarmi.

Prima di tutto dirò che ho sempre amato la narrazione, ricordo la nonna e la mamma che mi leggevano le fiabe quando ero piccola e ricordo l’immensa gioia di poterlo poi fare autonomamente, ripercorrendo magari la stessa storia infinite volte. Ho ancora il libro di fiabe di quando ero bambina, l’aveva acquistato il babbo a fascicoli e poi rilegato in azzurro. Le mie preferite: Pelle d’asino, e L’acciarino magico. Le fiabe sono una folgorazione e il loro potenziale di creazione e costruzione dell’identità è immenso, come avrei appreso poi da adulta nelle pagine de “Il mondo incantato” di Bettelheim, ma agiscono in noi bambini proprio perché non siamo consapevoli della loro funzione e, in linea con i principi più recenti della Teoria del Cambiamento, ci manipolano usando immagini e situazioni lontane da noi.

La lettura delle fiabe è stata l’inizio dell’esperienza della lettura per me, ed è stata l’inizio di qualcosa che nella vita non mi è mai venuto meno e che rappresenta tuttora una risorsa ineguagliabile di scoperta, conoscenze, compagnia, divertimento, riflessione. Nella lettura si cerca se stessi proiettandosi in una storia che non ci appartiene o dotandoci di nuovi strumenti di comprensione della nostra realtà. Dalla lettura alla scrittura il passo è breve; da bambina scrivevo storie sul giornalino di classe, ho mantenuto crescendo l’abitudine di scrivere attraverso sporadiche pagine di diario, lettere e poesie.


Non ho mai ritenuto di avere una vero talento letterario ed ho scritto sempre per me e per le persone care, per cercare di contattare profondamente me stessa e i miei affetti. Le poesie sono nate quasi sempre da forti emozioni difficili da controllare e gestire, a volte anche da capire. La ricerca di parole per dire certi sentimenti ha sempre avuto il potere di chiarificarli, di farmi individuare alcune sfumature peculiari nei momenti che raccontavo, la natura più vera dell’emozione vissuta, la sua cifra, il suo colore, la parte di me più coinvolta. In sostanza scrivere per me è stato come sottopormi ad una psicoterapia. Non so dire se leggere e scrivere rendano le persone migliori in generale, probabilmente non è così, però posso dire che per me queste pratiche hanno significato crescere e diventare più completa e consapevole, se non migliore.

La scrittura, come la vedo io, ha una funzione di supporto alla vita ed è uno dei possibili strumenti di comunicazione. Non è mai fine a se stessa. Recentemente ho iniziato a frequentare un laboratorio di scrittura proprio per provare a misurarmi con la scrittura slegandola dal mio vissuto e dalle mie riflessioni; per verificare se io sia capace anche di una scrittura che sia creativa non di identità ma di storie universali che parlino anche ad altri. Si tratta, come con questo blog, di sperimentare possibilità espressive e comunicative.
In un certo senso la scrittura non ha mai conosciuto la diffusione attuale diventando mezzo di comunicazione a portata di mano – in senso letterale – di tutti. Grazie a social media e a smartphone tutti possiamo postare i nostri pensieri e i nostri commenti su qualsiasi argomento, aprire un blog è banale, come dimostra il fatto che ci sia riuscita perfino io, e un medium un tempo riservato a una ristretta cerchia di intellettuali, giornalisti e personaggi della cultura si è democraticamente messo a disposizione dell’uomo comune. La conseguenza di questo fenomeno è sotto gli occhi di tutti: una generale banalizzazione e un impoverimento di forme espressive e ancor più di contenuti a fronte di volumi elevatissimi di testi scritti circolanti; mi sembra tuttavia che disdegnare in modo snobistico questa koinè che sta germogliando sia antistorico e poco sensato e che partecipare alla creazione e all’evoluzione di questo nuovo esperimento di comunicazione sia un dovere culturale e civico.

Solo la conoscenza può dotarci infatti degli strumenti per comprendere noi stessi e il mondo in cui viviamo. La scrittura è un mezzo potente, seduce chi legge e chi scrive. Ma è sempre e solo un mezzo, uno strumento, perfino un’arma in mano esseri umani diversi. Lo stesso Platone nel Fedro esprimeva le sue forti riserve nei confronti della scrittura e non a caso ha dato alle sue opere la forma dialogica per preservare il primato dell’oralità:

Quando Theuth venne alla scrittura disse: «Questa conoscenza, o faraone, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare: è stata infatti inventata come medicina per la memoria e per la sapienza». Ma quello rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di dar vita alle arti, e chi invece di giudicare quale danno e quale vantaggio comportano per chi se ne avvarrà. E ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di ciò che essa è in grado di fare. Questa infatti produrrà dimenticanza nelle anime di chi l’avrà appresa, perché non fa esercitare la memoria. Infatti, facendo affidamento sulla scrittura, essi trarranno i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non dall’interno, da se stessi. Dunque non hai inventato una medicina per la memoria, ma per richiamare alla memoria. Ai discepoli tu procuri una parvenza di sapienza, non la vera sapienza: divenuti, infatti, grazie a te, ascoltatori di molte cose senza bisogno di insegnamento, crederanno di essere molto dotti, mentre saranno per lo più ignoranti e difficili da trattare, in quanto divenuti saccenti invece che sapienti».

E’ incredibile quanto le parole di Platone, riferite ai segni che hanno portato ad una svolta nell’evoluzione della civiltà, possano applicarsi in modo puntuale e calzante alle caratteristiche peculiari delle nuove tecnologie che, in particolare per i nativi digitali, costituiscono la chiave d’accesso al mondo e alle relazioni ma anche a se stessi e alla propria “rappresentazione”. Quali dimenticanze può produrre nell’anima il nuovo alfabeto di cui disponiamo? Sempre pensando al pensiero di Platone n chiave moderna si potrebbe dire che la globalizzazione e il web abbiano reso immensa la “caverna” del nostro universo ma quelle che vediamo sono solo ombre, circondati dalla rappresentazione fasulla delle cose reali e perfino delle persone. Memoria e sapienza dell’anima vengono da quello che si vive direttamente nella propria carne e nel proprio spirito e la vita sarà sempre superiore alla scrittura.

Scriviamo, dunque. Dimostriamo ai nostri ragazzi che i social media sono anche confronto, pensiero e conoscenza, che la narrazione è nata prima della scrittura e ben prima dei post, non stanchiamoci di ricordare loro di vivere prima di postare, di coltivare la propria interiorità oltre al proprio aspetto, di ascoltare e parlarsi, di non perdersi sguardi e passeggiate mano nella mano. Una parola pronunciata attraverso un sorriso o rotta da un pianto può dire forse più di una poesia, uno sguardo sincero più di tante lettere, un abbraccio silenzioso più di una promessa.

Sesso