martedì 25 dicembre 2018

Racconto di Natale


Oggi ho pensato di fare gli auguri a modo mio, con un racconto.

"LEGAMI"

Gregorio stava scendendo le scale dell’ufficio dove lavorava per uscire. Doveva ancora ritirare il panettone dalla pasticceria di fiducia. “Auguri” ripeteva ai colleghi che incrociava e intanto ricercava sul cellulare la foto che Giulia gli aveva inviato via messenger, indossava la sottoveste di pizzo grigio perla che le aveva regalato due sere prima. Il loro scambio di regali. Guardava soddisfatto quella ragazza carina, soprattutto più giovane, e si sentiva carico di nuova energia, galvanizzato e pronto per dare il meglio di sé nel rito familiare delle feste.

Ritirò il panettone e prese ancora una bottiglia, quella speciale, francese, con la quale usavano brindare lui e Sara la sera del 25, il loro momento di parole, bilanci della giornata, commenti, il loro brindisi personale. Avevano iniziato quando i bambini erano piccoli per festeggiare l’intimità del sonno appagato regalato da Babbo Natale a Michele e Sveva; avevano poi mantenuto negli anni questo ennesimo rito, per riservarsi uno spazio fuori dal perimetro del loro specifico presepe e adesso che Sveva frequentava l’università a Padova e Michele viveva e lavorava a Duesseldorf il rito si conservava, forse perché piacevole o forse perché ci voleva troppo coraggio per rinnegarlo.

Come ogni anno avrebbero trascorso la vigilia dai genitori di Sara con la famiglia di sua sorella e il pranzo di natale in casa loro, Gregorio sarebbe andato a prendere il padre e lo avrebbe riaccompagnato alla casa di riposo nel tardo pomeriggio.

Quando entrò in casa vide per prima Suzanne, la moglie di Michele, a gambe incrociate sopra il divano che leggeva tenendo il libro poggiato sul pancione. “Ciao Suzanne” “Ciao papi, Kome andato laforo?” “Giornata tranquilla, tutti presi dagli auguri e desiderosi di andare a casa” rispose, ripensando in quell’istante all’immagine di Giulia che probabilmente non aveva fretta di andare a casa come gli altri e che il suo natale lo aveva avuto il 22 e lo chiamava languidamente da quella fotografia. “Michele? È uscito?” “Andato giokare squash Kon Lorenzo e Sveva dofefa ankora prentere rekali”. Suzanne era una ragazza dolcissima e mascolina insieme, non l’aveva mai vista adirata, aveva un modo vitale ma controllato di gestire la rabbia che Gregorio trovava affascinante. Sembrava che avessero un bel rapporto lei e Michele, franco e complice, non sempre facile ma “scorrevole”. “Gregoriooo! Hai preso il panettone?” “Si, certo” rispose alla voce proveniente dalla cucina e si diresse verso di lei. Sara stava preparando le crespelle al salmone per portarle a casa dei suoi. “Ciao”, le disse avvicinandosi e baciandole la testa china sulla teglia. “Ho preso anche la bottiglia per noi”. Sara sorrise “Mi domando se Sveva doveva ridursi al 24 per i regali, almeno fosse in pari con gli esami… quella ragazza mi fa venire ansia qualunque cosa faccia!” “Lo so” rispose Gregorio. “Ti posso aiutare?” “Se i biscotti sono freddi puoi metterli in quella latta e far partire la lavastoviglie con queste ultime cose, così mi vado a cambiare, grazie tesoro”.

Gregorio parcheggiò lungo le mura e presero a piedi via Romana. I suoi suoceri abitavano in un palazzo del centro. Cinque piani da fare a piedi con i pacchetti, la teglia, il panettone. Quando i bimbi erano piccoli doveva fare due viaggi dalla macchina. Le scale erano piuttosto strette. Incontrarono la Sig.ra Bertini del terzo piano che scendeva al secondo dalla sorella Ida. “Buongiorno e tanti auguri! Sveva sei sempre più bella! Michele! Che bello vedervi tutti insieme! Tanti auguri a tutti!”.

Arrivarono anche la sorella di Sara con il marito e la figlia Letizia. Fu il solito cenone, Gregorio pensava a quel sopratono che come un frastuono di fondo copriva il rumore dei pensieri, le parole che la mente si bisbigliava al sicuro dal campo aperto della tavolata.

“Abbiamo incontrato la Sig.ra Bertini, carina come sempre” disse Sara, “scendeva da sua sorella immagino. Certo è triste passare le feste loro due sole.” “Eh si, poverine! Almeno Ida un marito l’ha avuto, Lucia, che io sappia, una vita di solitudine...” rispose grave la madre di Sara.

Sveva intervenne poggiando la forchetta “Diciamo la verità, il Natale per come è concepito è una vera frustrazione per chi è solo. Pranzi di famiglia, cenoni, regali, tombola e mercante in fiera… ma quando sei solo come sali sulla giostra?” “Cara la mia psicologa” disse Sara “in parte hai ragione, ma è pur vero che la giostra poi...dove porta? In fondo gira su se stessa”.

“Forse la giostra ha senso per la forza centripeta, non va da nessuna parte, ma magari tiene insieme tutto, credo” disse Michele e Suzanne lo guardò sorpresa e intenerita.

Dopo cena giocarono al mercante in fiera e al gioco dei mimi, poi aprirono i regali. Sara indossò gli ennesimi orecchini e la nuova sciarpa che Gregorio le aveva acquistato e mentre la guardava avvolgersi nella morbida pashmina Gregorio si domandava se davvero quella donna amata così a lungo si sentiva limitata e prigioniera come era parso a tutti dalle parole dette a tavola. Aprì il proprio pacchetto, il regalo di Sara era ancora una volta un viaggetto, tre giorni a Madrid per loro due. Pensò che lui la inchiodava con orecchini e la legava con lunghe sciarpe mentre lei voleva solo ali.

Pensò alla sottoveste e a Giulia, vide quelle spalline di seta come nuovi lacci, quel pizzo come una tela di ragno. Forse era misero e miserabile, non in quanto traditore e bugiardo ma per questa sua tendenza ad imprigionare nel rito e nel suo immaginario le vite degli altri per dare vigore alla propria.

Prese il cane dei suoceri e lo portò a fare la giratina serale. Risalendo incontrò la sig.ra Bertini che se ne tornava al proprio appartamento al terzo piano dopo aver festeggiato la vigilia con la sorella. Aveva due libri e un profumo con sé, probabili regali.
Si fermò sulla porta a parlare con lei qualche minuto, gli raccontò del vecchio film che avevano guardato con Lucia, gli mostrò i libri, si scambiarono ancora gli auguri.

Chiese a Michele di prendere l’auto e propose a Sara di fare ancora due passi notturni in piazza Pitti e al Ponte Vecchio e fino ai Lungarni e di tornare con un taxi.

La tenne per mano passeggiando, gli piaceva che lei lo seguisse sempre volentieri nelle sue proposte, gli piaceva camminare tenendosi per mano, le dita intrecciate, così, inestricabili.

mercoledì 5 dicembre 2018

Tasche

Ultimamente ricorrono sempre più sovente tra amici, colleghi e conoscenti le narrazioni dell’età della nostra giovinezza con divertiti o amari raffronti con l’attuale declino morfologico e spesso anche contenutistico.

A me piace pensare che invecchiare sia un processo di crescita e non di deperimento, quanto meno, non esclusivamente di deperimento.

Un modo insolito per provare a guardare all’evoluzione non solo dei tempi ma del nostro specifico e unico tempo potrebbe essere analizzare cosa portiamo con noi oggi, cosa teniamo a portata di mano, diciamo in tasca, rispetto a ciò che vi tenevamo nella dorata età della giovinezza.

io e il cappottino 
La prima cosa che mi viene in mente se chiudo gli occhi e lascio la mia piccola mano liscia e morbida entrare nella tasca del cappottino cucito dalla mamma è la goduriosa sensazione tattile provocata dal fazzoletto di cotone. A volte intatto, appena stirato e odoroso, altre usato, abusato e ridotto in orrida polpetta.

Quando frequentavo le scuole medie posso affermare con sicurezza che nelle mie tasche si trovavano spesso gomme da cancellare dai profumi nauseabondi, probabilmente sottratte alla compagna di banco, e big bubble masticate e pigiate a forza in microscopici coriandoli che finivano per creare un unico composto pseudo-organico con il panno della giacca di Principe.

Intorno ai vent’anni nelle tasche si trovava sempre un biglietto dell’autobus, qualche tappo di penna masticato e, in rare occasioni mai dimenticate, una bustina con un profilattico.

Ad un certo punto la poesia organica della giovinezza si è interrotta bruscamente con l’avvento del governo degli strumenti e della tecnica e nelle tasche di informi piumini hanno preso a gravare come pietre le chiavi della macchina.

Per un periodo non lungo abbastanza vi ho estratto ed inserito con trafelata dolcezza il contenitore porta-ciuccio per porgerlo e toglierlo alla piccola creatura che credevo di portare con me, ma che in realtà mi portava con sé.

Oggi, mentre camminavo per strada, la mia mano stanca e sciupata ha cercato riparo e riposo ed ha trovato all’interno del cappottino un enorme, disperato buco.

Quella tasca sfondata mi parla di cose perdute ma anche di cose da cercare. Quello spazio inatteso, subìto mi apre nuove possibilità, il mistero e la vertigine dell’ignoto, del non posseduto.
La consapevolezza che niente è a portata di mano. Quella mano in cerca di rifugio e riposo si è fatta avanti baldanzosa allargando lo strappo per portarmi oltre le mie tasche.

martedì 30 ottobre 2018

Un anno di blog

Il 30 ottobre 2017 ho aperto questo blog. L'ho fatto perché volevo usare il web a modo mio e mostrare a mia figlia una cifra diversa, magari non la sua, ma possibile e reale: un modo di stare in rete per riflettere e confrontarsi e non solo per guardarsi.

L'ho fatto perché in tempi difficili e solitari le parole mi hanno sostenuto ed ho cercato di individuare quelle che considero dei riferimenti importanti, le basi sulle quali voglio ancora crescere ed evolvermi.

L'ho fatto per curiosità e per sfida con me stessa.

Ovviamente non sono diventata una "influencer" e i miei post vengono definiti da qualche amico affettuoso: i pipponi. E siccome gli amici affettuosi spesso hanno ragione… temo lo siano. 

Per me è stata un'esperienza positiva; un impegno che ho preso con me stessa ed ho portato avanti.

Non sono sicura che lo continuerò per molto, ma se lo dovessi continuare, probabilmente diventerebbe qualcosa di diverso; forse meno parole e più storie, o forse meno solitario, perché oggi mi sento meno solitaria. 

Oggi mi piaceva festeggiarne il compleanno e ringraziare le persone, amiche e non, che hanno dedicato del tempo a leggermi. 

Scrivere fa bene, ma essere letti fa piacere.

domenica 21 ottobre 2018

Attenzione

Ieri, come mezzo paese, ho seguito alla televisione la finale dei mondiali di pallavolo esultando e soffrendo con le battagliere ragazze della nostra nazionale. Non sono una grande sportiva e solo in occasione di grandi competizioni internazionali mi capita di seguire discipline che non ho mai praticato direttamente e che quindi conosco in modo superficiale. Ieri sera ho nuovamente assistito, stavolta dal vivo, ad un incontro di pallavolo del campionato B2 dove gioca la mia cara “piccola” Bianca. In ambedue i casi, osservare le atlete in gara mi ha fatto pensare a come la parola attenzione possa definirsi una sorta di concentrazione in movimento.

Derivata dal latino attentio a sua volta riconducibile al verbo attendere (rivolgere l’animo), l’attenzione è per l’appunto un tendere verso qualcosa, un rivolgersi; implica in sostanza un movimento, una tensione attiva verso una direzione.

Nei giochi di squdra questa “disposizione” è particolarmente evidente in quanto si realizza non solo nel seguire la palla, ma anche le compagne, ma anche le avversarie e il campo da gioco. Questo agire attivo si palesa anche a chi non dovesse essere esperto dello sport in questione.

Trovo che attenzione sia una parola molto bella e che spesso pensandola ci raffiguriamo soggetti dediti all’ascolto o alla visione in modo apparentemente passivo, ma la metafora del gioco aiuta molto bene a chiarire invece come questo tendere, questo rivolgersi debba necessariamente essere agito, consapevole e determinato.


Lo studente che ascolta la lezione o si concentra su un testo, il genitore che osserva e ascolta il figlio alla ricerca del non compiutamente detto, l’amica che partecipa del nostro dispiacere o che condivide la nostra euforia. L’attenzione è tante cose, indica anche gentilezza, premura, cura. Nessuno dei significati può essere mai intepretato come passivo.

Lo stesso verbo attendere indica applicarsi, dedicarsi a qualcosa, e l’attesa, con la sua tensione verso (ad) è ben lontana da un distaccato fatalismo.

Che il campo da gioco sia un palazzetto, un libro di testo, un’aula, una relazione d’affetti la scelta di attendere a quello che abbiamo davanti, l’atto di volontà del rivolgersi in quella specifica direzione è un gesto attivo e creativo che, solo in tale misura, può produrre il risultato atteso.

Nel bel romanzo di Nadia Terranova “Addio Fantasmi” la protagonista Ida racconta così il modo in cui la madre si rivolge a lei: “Mia madre mi guarda con amore, con rabbia, con attenzione: mi guarda con occhi che mi fanno esistere”.


domenica 16 settembre 2018

Errore

La parola errore viene dal latino e deriva da errare. Nel girovagare quindi viene implicitamente individuata un’accezione negativa che non è riconducibile al movimento in sé, ovviamente, ma alle deviazioni rispetto alla via maestra, alla destinazione.
Trovo che questo significato sia piuttosto interessante e che meriti una riflessione. Come regola generale direi che sono abbastanza d’accordo con la necessità di essere focalizzati sul risultato da raggiungere anche perché mi ritengo persona pragmatica. E’ abbastanza evidente che sbagliare la coniugazione di un verbo o un’operazione matematica sono deviazioni da una regola e da un procedimento definiti e inappellabili. La via maestra è molto spesso un codice, scritto o quantomeno condiviso, una convenzione o una tradizione.

Il codice, tuttavia, non può essere considerato sempre la destinazione vera e propria, bensì uno strumento, una guida, il sentiero tracciato che vuole fornire un ausilio nel raggiungere obiettivi individuali e specifici.

La vita in effetti è più complicata di un problema di geometria e il risultato è molto meno certo, soprattutto, è diverso per ognuno di noi e spesso è proprio in quel girovagare che troviamo la nostra strada o il motivo per ritornare sulla via maestra. Il viaggio costellato di “errori” di Ulisse lo porta comunque ad Itaca ma con una conoscenza ed una consapevolezza diverse da quelle che avrebbe avuto prendendo un volo da Troia senza scalo.

Sono piuttosto affezionata ad alcuni miei errori. Questo non significa che li rifarei, anzi. Sono affezionata a quelli che mi hanno insegnato qualcosa e mi hanno fatta crescere e sono affezionata a quelli che mi hanno portato lontana da una destinazione che, probabilmente, non era la mia.
Sono affezionata ai miei errori perché, soprattutto, mi hanno insegnato che non sono perfetta. Sono rigorosa ed esigente, ma non devo essere perfetta, ed accettare di essere limitati può essere un sollievo e un valido aiuto per cercare di essere migliori.

L’esperienza degli errori altrui è l’aspetto che mi  emoziona di più. E’ nell’errore che ci rendiamo conto di quanto amiamo qualcuno. Non nel momento in cui ci gratifica con i comportamenti o le parole che ci aspettiamo ma nel momento in cui abbandona la via maestra e, ci delude forse, ma, se accogliamo la possibilità del limite, ci trasporta su una nuova strada dalla quale vediamo spazi inediti dove poter immaginare nuove vie.

domenica 12 agosto 2018

Prezzo



Tutti sappiamo cosa significhi la parola prezzo. Si tratta del corrispettivo monetario di un bene o di un servizio. Il termine deriva dal latino pretium. Anche nelle lingue germaniche si trova la stessa espressione (price, Preis)… I bei tempi andati quando in Europa al posto dell’euro si scambiavano i Sesterzi. Alla caduta dell’impero romano una delle prime monete coniate è stata il Fiorino e, da buona campanilista, è questa la moneta che scelgo di riportare in fotografia. L’immagine è strumentale a ricordare la natura reale e concreta di questo corrispettivo, anche quando con l’espressione prezzo si voglia alludere a qualcosa di astratto, quando la si usi in senso figurato.



Quest’immagine concreta e quantificabile misura per l’appunto il corrispettivo pagato senza possibili incertezze (svalutazioni permettendo). Il vino pagato coi sesterzi, coi fiorini, con le lire o gli euro potrà essere buono, genuino, pregiato ovvero scadente e adulterato, lo scopriremo accostando il calice alla bocca. Tuttavia due sesterzi, tre fiorini, 8.000 lire o 5 euro sono senza dubbio quelli.

Nella nostra società, per motivi storici, economici e culturali il prezzo e il valore si sono confusi e il corrispettivo è finito per diventare il bene.

Ci tengo a precisare che le mie riflessioni non vogliono essere ovviamente un saggio economico per il quale non avrei titolo o competenze. Quello che mi interessa indagare è, ovviamente, il prezzo figurato, quello che paghiamo vivendo, scegliendo, sbagliando. Ho infatti la sensazione che anche in questo caso ci si preoccupi moltissimo del prezzo e troppo poco del bene e del suo valore.
Ciò che ha scardinato la corretta ponderazione di queste categorie è, quasi sicuramente un’ulteriore categoria che chiamo profitto, nel caso di corrispettivo monetario, o vantaggio, in senso figurato.
Il profitto sappiamo tutti cosa sia, come sappiamo che il valore del parmigiano che ci offre la grande distribuzione è più alto del corrispettivo che ci viene richiesto di pagare.
In questi giorni si è molto parlato giustamente del sotto costo e di chi paghi il prezzo di un pomodoro a buon mercato.

La verità è che nessuna cosa di valore è a buon mercato. La sola cosa che ci viene regalata ogni giorno è la natura, l’ambiente, I boschi, il mare, le stelle cadenti, le marmotte che ci salutano in montagna. Non dobbiamo alcun corrispettivo per tutto questo ben di Dio, è così, a disposizione. La cosa più preziosa, non ha prezzo. Che cosa sono allora la coscienza ambientale, l’ecologia, il rispetto della natura. Sono assunzioni di responsabilità rispetto a qualcosa che riceviamo ed è nella nostra disponibilità, perché il mancato rispetto e la deresponsabilizzazione generano un “prezzo” da pagare molto molto alto, difficile da misurare. Laddove sembra non vi sia un prezzo ma un facile vantaggio, spesso si nasconde il prezzo più alto.

Le nostre scelte hanno un prezzo, le nostre azioni e anche la nostra inazione. Siamo responsabili dei nostri comportamenti e il prezzo comunque viene pagato, potremmo non essere noi a pagarlo, ma in questo caso la responsabilità sulle nostre spalle è ancora maggiore.
Cosa ci dice se il prezzo di un bene è giusto, in cosa si concretizza il vantaggio che acquisiamo? La valutazione non può che essere fatta pensando al valore del bene.
Puntare al valore e accettarne il prezzo. Scegliere responsabilmente per il bene più prezioso, solitamente è quello che non ha prezzo e che paghiamo solo nel momento in cui abbiamo preferito il sotto costo e il profitto e dimenticata la nostra responsabilità.
Orientarsi con le scale di valori e non con le superofferte.

Oggi mia figlia mi ha mandato la foto di un pipistrello addormentato sul muro. Intenerita mi ha scritto: “Me lo compri?”. Io scioccamente le ho risposto: “E’ gratis, ce l’hai già. A chi lo paghiamo?”.
Alla natura”.

domenica 22 luglio 2018

Intimità

Capita certe volte di incontrare persone con le quali è molto facile aprirsi e raccontarsi. Certe volte abbiamo la sensazione, e può anche essere vera, di essere compresi o visti con maggiore chiarezza e profondità che non, magari, da chi ci conosce da anni. Esistono in effetti relazioni nelle quali la serratura scatta come appena oliata e la porta si apre senza neanche cigolare. Non succede spessissimo, ma succede, e credo sia anche facile da spiegare. Abbiamo amici e familiari che ci conoscono bene e anche molto bene, ma hanno una chiave di accesso che non necessariamente cambia con il tempo. La conoscenza e la consuetudine possono forgiare meccanismi a volte ripetitivi e semi-automatici che ci interpretano sempre secondo un codice noto.

Ma la vita è dinamismo e cambiamento e l’abitudine può essere di ostacolo nel decifrare un nuovo codice. Ecco che la nuova conoscenza sfrutta il vantaggio della totale assenza di pregiudizi e aspettative e riesce con grande facilità a cogliere la mappa della chiave, a seguirne il profilo con attenzione e a far scattare la serratura.

Tuttavia non credo che in questi casi si possa parlare di intimità.

Foto di Paola Pannuti
La parola intimità ha fra i suoi significati e sinonimi “familiarità”; tra i possibili significati di quest’ultima però non figurano i riferimenti a ciò che rimane nascosto, al corpo, alla sessualità che invece circondano, come un alone di luce soffusa e baluginante la parola intimità.

La consuetudine e familiarità dei corpi rimane una chiave di accesso a ciò che è più intimo e nascosto anche a noi stessi: le nostre emozioni.

Quel punto in cui il collo di Anna è più morbido e dove sprofondo la mattina quando la sveglio, quel neo sull’orecchio che mi incanta, la pelle di mia mamma, il modo in cui Paolo tiene tra le dita un biscotto prima di inzupparlo nel caffè, tenersi per mano.

Esperienze fisiche che, pur nella consuetudine del quotidiano, non perdono il loro potere di suggestione e ci portano in zone di noi stessi che non saremmo mai capaci di trovare altrimenti. Come una meditazione profonda passa dal respiro così questa consapevolezza di emozioni così profonde ha bisogno del corpo per arrivare là dove la comprensione da sola non può.
Una caratteristica del potere evocativo di forme, suoni, gesti è il fatto che bellezza e imperfezione danzano insieme nel nostro personale mistero emozionale senza soluzione di continuità, scambiandosi ruolo e significato e regalando a piccoli difetti, a movenze meno aggraziate l’assoluta perfezione del nostro totale accoglimento.

E’ possibile raccontare cose anche molto intime, ed è possibile farlo con una poesia, una canzone, un blog, una lettera o un dialogo aperto. Ma non credo si possa avere intimità tra persone se non attraverso la familiarità amorevole del corpo.

domenica 24 giugno 2018

Canto

Oggi è San Giovanni e Firenze è più festosa del solito, ma in generale l’inizio dell’estate è accompagnato da iniziative nei vari spazi aperti in città e fuori che ci portano nelle piazze e negli anfiteatri, nei giardini e nei cortili per un film, una lettura o, magari, un concerto.

CONfusion  - Vicchio - 21/06/2018 Foto di Melania Ciampolini

Questa settimana sono uscita quasi ogni sera ed ho avuto il piacere di assistere a due concerti, uno di questi è stato il concerto del coro CONfusion nella foto, che fra le altre belle canzoni, mi ha fatto sentire ancora una volta “Bread and roses”.



Ieri in macchina cantavamo a squarciagola come facciamo spesso, questa mattina tramite facebook mi sono goduta fino in fondo il video del Late Late Show di James Corden a spasso con Paul McCartney per Liverpool, e durante la puntata odierna de La lingua batte radio3 ha trasmesso una canzone di Vecchioni che ho improvvisamente ritrovata e ricordata con enorme commozione: Euridice.

Per tutte le circostanze che ho menzionato e trascinata dal mito di Orfeo nella narrazione di Vecchioni ho pensato che avrei voluto parlare del canto e che questa parola ha, a buon diritto, un posto d’onore nel mio vocabolario solitario.

Il canto è un’espressione così naturale dell’uomo da essere presente anche in civiltà che non possiedono una lingua scritta ed una conoscenza della musica canonica. In effetti il canto appartiene in origine proprio all natura e agli uccelli. Ignoro come l’uomo abbia iniziato a modulare i suoni che emetteva e ad accompagnarli con suoni prodotti grazie ad altri strumenti (anche se la proposta avanzata da Mel Brooks ne “La pazza storia del mondo” era particolarmente spiritosa), quello che è certo è che da sempre l’uomo ha utilizzato il canto per dialogare con la natura e con gli Dei e per accompagnre ritualità sociali o di guerra. Ingraziarsi gli Dei, pregare, condividere, festeggiare, incoraggiare, spaventare, piangere. Quante storie e quante intenzioni dietro la modulazone della propria voce!

Gli odierni concerti Rock non sono forse riti collettivi? E l’inno intonato prima di un incontro di calcio, non suona quasi come un peana? Tuttora accompagnamo la preghiera con il canto, cantiamo in coro tanti auguri al festeggiato, ci mettiamo in cerchio guidati dall’amico con la chitarra.

Come Orfeo che incantava anche le pietre ed ha sfidato l’aldilà per riavere la sua Euridice, così, nel nostro piccolo, innalziamo il nostro canto, diciamo la nostra rabbia o il nostro amore, confessiamo le nostre paure, proviamo a vincere la morte, ben sapendo, come l’Orfeo di Vecchioni, di “essere lacrime nella pioggia... perché le carezze di ieri non saranno mai più quelle... ma là fuori si intravedono le stelle…”

Poi ci sono voci eterne, e ascoltando la Callas o Janis Joplin o Amy Winehouse, ci pare che davvero il suono di una voce possa vincere la morte. Ognuno di noi ha le sue personali voci eterne.

Ricordo mia mamma che cantava sulla scala mentre puliva i pendenti del lampadario di cristallo “Signorinella pallida...” e altre canzoni del dopoguerra, ricordo la mamma e anche la nonna che mi cantavano “Fate la nanna coscine di pollo”. Quante volte l’ho cantata ad Anna. Sempre me la chiedeva insieme a “La Canzone di Marinella” e a “Somewhere over the Rainbow”.

Così come abbiamo cullato i piccoli accompagnandoli senza paura nel buio della notte, anche noi facciamoci cullare dalle note di una canzone, da una voce senza tempo, dalla nostra voce che si mescola con le altre in una preghiera ininterrotta, in un inno alla vita.

martedì 29 maggio 2018

Corpo




La parola corpo ha, tra i suoi significati, quello di organismo, struttura fisica. La manifestazione materiale degli esseri viventi. Questo essere materia comporta che, a tratti, corpo e materia si identifichino in una contrapposizione con ciò che materia non è: l’anima, la dimensione ultraterrena, l’interiorità, insomma corpo versus spirito. Come sempre tuttavia certe dicotomie non sono mai vere fino in fondo.

Qualche giorno fa entrando in un bar mi sono trovata davanti una coppia con un neonato. La creatura era beatamente accomodata con la pancia sulla spalla del padre e io che mi trovavo dietro di loro potevo vedere la sua testina protendersi, le piccole braccia allungarsi e oscillare e la manina chiusa a pugno cercare la bocca affamata. “Come è facile amarli quando sono così” ho pensato guardando il tenero cucciolo umano.  In effetti per ogni specie è naturale amare i cuccioli; i loro bisogni, la mancanza di autosufficienza fanno sì che ce ne prendiamo cura con gioia e dedizione e rispondere alle loro esigenze è gratificante anche per noi che con semplici gesti di accudimento siamo in grado di soddisfarli e renderli felici. Quanto è più complesso amare gli adolescenti e gli adulti e quante volte il nostro amore ci pare inutile,  infruttuoso, magari pure sprecato.

Cosa c’entra tutto questo con il corpo e con la materia? In effetti i miei pensieri sono abbastanza confusi anche per me che li ospito (nel mio corpo?), ma quel neonato che interagiva con lo spazio circoscritto intorno a sé, mi stava dicendo qualcosa di ben preciso. Mi stava mostrando l’abc del linguaggio del corpo. La comunicazione efficace di bisogni, di coscienza, o quantomeno, di percezione ed emozione.

La vita è movimento, cambiamento di stato. Siamo vivi grazie al nostro corpo che si muove, all’organismo che agisce, al nostro modo di relazionarci con l’esterno. Siamo morti quando il cuore si ferma. Gli essere viventi e animati sono per l’appunto animati dal moto, dal cambiamento. Anche l’invecchiamento del corpo ce ne mostra, per paradossale che possa sembrare, la vitalità. Ciò che è morto, invece, è immobile.

Nei movimenti limitati e sperimentali del neonato la ricerca di scoperta della realtà e l’espressione di bisogni. Un’onesta esternazione del sé. Crescendo il bambino impara a misurare gesti ed esternazioni, si specializza e piano piano diventa più efficace ma meno vero. Cosa sarebbe il nostro linguaggio del corpo se lo usassimo davvero per interagire con la realtà, per esprimerci e raccontarci? E’ vero quello che dicono psicologi e comunicatori che il corpo non mente? Io non ne sono tanto sicura. Esiste per certo una quota di inconsapevole attitudine o mobilità che ci rivela più puntualmente, ma per certo crescendo perdiamo il moto vitale di scoperta e manifestazione. Tra le forme di espressione corporea forse la sessualità può conservare ancora qualche traccia del nostro spirito che si manifesta, ma in mezzo a tanti gesti appresi e misurati.


Foto di Vincenzo Palmieri

Per quanto studiata e artefatta l’espressione che mi sembra depositaria di questa naturale ricerca di azione e modifica del circostante è la danza. Attraverso la danza il corpo interagisce con l’esterno e cerca di dare al moto della vita un contenuto espressivo non universalmente e specificamente vero ma simbolo di quel dialogo con l’esterno e della coesistenza di materia e spirito in ognuno di noi. Usare il corpo per dire, per accogliere,  per comunicare.



Anche l’amore è movimento e cambiamento di stato ed è sentimento inscindibile dal corpo e che realizza di nuovo il superamento della dicotomia corpo-spirito. Ricordiamoci di assecondare questo movimento vitale, di accompagnare il cambiamento e protendersi sempre a dire il nostro bisogno e il nostro bene, perché il cuore non si fermi.


domenica 22 aprile 2018

Apparenza


Avendo parlato di bellezza in questi giorni mi sono trovata spesso a pensare alla sua sorella triste e vana: l’apparenza. Tante volte quest’ultima ci sembra vera bellezza però qualcosa non quadra. L’inganno è presto svelato quando l’immagine non rimanda ad alcun oltre da sé, non racconta una storia vera, un desiderio, una fede o un amore. L’apparenza è paga di sé. E’ uno specchio che riflette solo l’immagine di una forma vuota perché una fredda lamina scura impedisce di attraversare con lo sguardo la trasparenza del vetro e guardare oltre e intorno.

Penso alle fotografie nelle quali l’occhio di chi ci ama, un genitore, un amico, un innamorato si posa su di noi con quell’attenzione e quella partecipazione che sola può cogliere il momento di quello che siamo. Penso agli occhi di chi, fotografato, guarda verso un obiettivo che in realtà sono gli occhi della cura e dell’affetto, della curiosità e del desiderio. Certe volte sfogliando vecchi album vediamo quegli occhi che ci guardano e riconosciamo quello sguardo solo per noi. Certe volte ricordiamo anche i suoni, le parole, l’attimo e i mille momenti nei quali quello sguardo è stato per noi.
Poi ci sono i selfie. Mute, solitarie e inanimate pose, dove uno sguardo vitreo e senza interlocutore si spegne tristemente nel nero di uno specchio e non attraversa, non conosce trasparenza e non può liberarsi dalla prigione del proprio corpo per andare incontro a qualcuno o qualcosa.
Anche l’esposizione di sé e il narcisismo hanno una loro bellezza se riescono a proiettarsi ed andare oltre, se cercano anche disperatamente l’altro e l’oltre.


Mi viene in mente la tormentata e tenera bellezza di Marilyn Monroe su quel lenzuolo bianco davanti all’obiettivo e allo sguardo di Douglas Kirkland e credo che nell’interazione tra quelle due persone, nella seduzione e nel gioco la creatura bella e fragile abbia dato qualcosa di sé e l’uomo dietro l’obiettivo abbia cercato di dare spazio e visibilità ad un corpo ma non solo. Per contrasto l’immagine di una top model o soubrette col telefonino davanti allo specchio del proprio bagno, per quanto ben fatta, mi sembra possa solo apparire grigia e senza vita, senza respiro e seduzione perché manca l’occhio dietro l’obiettivo.
 In realtà quell’occhio c’è; è quello dei followers ovviamente, ma è “postumo” e questa distanza temporale fa sì che la forma di fronte allo specchio sia tristemente sola e il suo sguardo non possa cercare e desiderare, offrendo un immagine non seducente ma sedicente.
La vita dell’attimo, quella che passa negli sguardi, si spegne nel solipsismo di uno schermo freddo e nero verso cui guarda vitreo colui che scatta il selfie ed in cui si riflette in un attimo di solitudine collocato in un diverso tempo e in un altro spazio colui che guarda. Il vero inganno non è photoshop ma la distanza reale e temporale fra i due attimi e la profonda solitudine del mancato incontro.

Anche le parole a volte, come belle immagini, sono solo apparenza. Sarebbe troppo facile fare l’esempio della parola “amore” che può voler dire tutto e niente, preferisco prenderne una che uso spesso e spesso ho sentito: figlia. E’ mai possibile che questo vocabolo possa non corrispondere ad un sentire, ad un pensare e ad un agire di cura, affetto, responsabilità, speranza, preoccupazione, attenzione? Certo che è possibile, basta leggere le cronache e basta pensare al nostro vissuto.

L’apparenza è prepotente e si impossessa a volte anche della bellezza, solo negli infiniti attimi di vita vera e di quotidiano, solo nei fatti si trova la verità, oltre l’immagine e oltre le parole.

Sfuggire all’inganno dell’apparenza non è sempre facile e riconoscere di vivere nell’inganno è certamente molto doloroso. Quando ti guardi intorno e vedi pareti, finestre e complementi d’arredo ma sai di non avere una casa, quando ti scatti un selfie e vedi uno sguardo fermo e prigioniero di un corpo, quando guardi quel copro allo specchio cercando la verità dell’anima, allora avvicinati alla finestra e guarda fuori. Esci in strada e cammina e continua a cercare un segno, una risposta, bellezza e verità, attimi di vita e occhi da interrogare.


domenica 15 aprile 2018

Bellezza


Ieri Firenze era la Primavera. Era davvero la Flora del Botticelli. Certi giorni ogni cosa risplende e risuona di un’essenza più alta e più profonda. Ripensando a cosa abbia contribuito a fare di questa giornata un regalo, cosa l’abbia resa “bella” comincio col dire: un bel sole e un inquieto venticello, aggiungo che non solo non ho preso l’auto, che per me vale mille punti, ma ho potuto passeggiare e andare in bicicletta, due cose che mi rendono felice. Passeggiare per Firenze è un’esperienza di bellezza che non necessita tante spiegazioni. Aggiungo che ho visitato un nuovo museo con una bella collezione privata e un quadro in particolare mi ha commosso. Da ultimo ma più importante: l’affetto, l’amicizia, l’attenzione e la partecipazione; in altre parole l’umanità che hanno riempito e riscaldato questa piccola e personale Primavera.

Foto di Vincenzo Palmieri
Si fa presto a dire bello, a parlare di bellezza. Ma non è sempre chiaro che cosa essa sia. Se sia una categoria di pensiero, un valore oggettivo o un’esperienza interiore. Facciamo ricorso quindi a paradigmi di bellezza acclarati e proviamo a capire meglio: Firenze e i suoi monumenti, un tramonto sul mare, Brigitte Bardot e, per non essere sessista, Paul Newman (potrei dire Sharon Stone e George Clooney magari se volessi essere più moderna). Certo gli esempi di bellezza sono molto più variegati ma volendo fare solo, al solito, qualche riflessione solitaria e non un trattato, opero una scelta.




Mi prendo la libertà di un’ulteriore scelta che restringe un po’ il campo e cioè decido di non considerare ciò che è piacevole, gradevole. Ciò che suscita piacevolezza ma non vera emozione. Ieri sera ho mangiato dell’ottimo baccalà e uno squisito cheese cake, due delle mie pietanze preferite e le ho godute moltissimo, tuttavia non parlerei di esperienza di bellezza.

In cosa consiste dunque l’esperienza della bellezza, cosa la rende specifica e potente? Io credo che la sostanziale differenza tra il cheese cake che ho gustato ieri sera e quello che ho provato pedalando per via Martelli sotto il sole, guardando l’angelo azzurro di Casorati o i tetti di Firenze e la cupola del Cestello dall’appartamento di Renate sia che nella bellezza si trova l’infinito, il possibile e forse anche l’impossibile, il desiderio, l’oltre.

Questo oltre può essere divino come lo sono certe manifestazioni della natura, dalle onde increspate, al tramonto, alle forme assurde che assumono le nuvole, all’impetuosa semplicità di una cascata. L’infinito al quale ci rimanda la natura è una forza della quale sappiamo di essere parte senza però conoscerla mai fino in fondo e senza mai governarla. E’ lo stupore di fronte al creato e il nostro essere un granello di sabbia è rassicurante e spaventoso insieme; la chiamiamo vita.

Ma l’oltre che si sperimenta nella bellezza è anche un superamento di limiti, la concreta realizzazione dell’umano che trasforma un bosco in ordinate vigne e un blocco di marmo nel David. Quell’umano ha un sovrumano che ci appartiene, è la misura della nostra capacità di superare i limiti, di immaginare ed essere con ciò non solo creature ma creatori, non sempre artisti ma sempre artefici.

La bellezza è quindi la chiave che ci apre la porta dell’infinito e del divino, come pure delle infinite possibilità dell’umano. La bellezza è anche la chiave del desiderio. Quella piega sul collo, quella smorfia che solo noi pensiamo di vedere, quel sorriso che si apre improvviso come la rete di un pescatore e ci cattura per sempre. Quegli infiniti dettagli di un corpo che ci richiama a qualcosa che ancora una volta è oltre. Umano e divino, corpo e anima ritornano insieme al divino nell’esperienza amorosa.

Non so cosa intendesse Dostoevskij con l’espressione “la bellezza salverà il mondo”. Credo però che abbia a che fare con l’esperienza profonda di divino e umano, con la passione e il desiderio che ci spingono oltre, alla vera essenza della vita.



domenica 25 marzo 2018

Casa


Sono seduta davanti al pc nel soggiorno del mio appartamento e osservo una pagina bianca dove ho scritto la parola casa; quello che vorrei è chiarire a me stessa che cosa significhino queste quattro lettere per me veramente e in quale misura nella mia vita possa averle declinate nella forma sbagliata arrivando a sentirmi fuori posto proprio nel luogo al quale avrei dovuto appartenere.

In effetti il fatto di sentirmi fuori posto mi ha accompagnato per lunga parte del mio percorso e in contesti  anche molto diversi. Fin da ragazzina ho sempre avuto la convinzione che “nella mia casa” avrei finalmente sentito di essere al posto giusto. Immaginavo la casa come il nido, dei confini appena più vasti, ma non di molto, di quelli della mia persona.

Da allora di case ne ho cambiate tante e sono cambiata anche io e mi sento un po’ come Alice nella casa del Bianconiglio: troppo piccola o troppo grande dentro confini che non combaciano mai con il mio profilo.

Ci deve essere un equivoco di base legato al significato che diamo alla parola casa. Accanto al significato di edificio, abitazione vi è un’accezione del termine che sposta la sua sostanza ad un livello soggettivo ed emotivo per niente legato a mattoni e cemento. Il sentirsi a casa, essere di casa, giocare in casa ci trasmettono un’idea di familiarità, di ciò che conosciamo e che ci conosce, di cui siamo parte. Una sorta di ventre materno che però non dobbiamo lasciare per nascere e nel quale ci sentiamo sicuri e riconosciuti. Tuttavia mi pare che di questa casa non sia così scontato avere le chiavi.

 In inglese due parole diverse: house e home,  distinguono l’edificio e la casa emotiva e la parola home ha la stessa radice dello heim tedesco con il quale si è formata anche la parola Heimat (patria). I tedeschi hanno due termini per dire nostalgia e una di queste è per l’appunto Heimweh che rappresenta proprio la pena che si prova per la mancanza della casa d’origine, della propria terra, di ciò a cui apparteniamo. Questa casa ha una connotazione tutta culturale e molto legata alla cultura occidentale. Immagino che popolazioni nomadi o culture animiste abbiano metafore diverse per rappresentare familiarità, desiderio, bisogno di appartenenza.

Sicuramente le nostre origini ci determinano in buona parte e la memoria, i sapori, gli odori e soprattutto le parole della nostra vita costituiscono i mattoncini dell’edificio di questa nostra piccola patria. E’ anche vero che non sempre ci riconosciamo nelle nostre origini, molti non si riconoscono nemmeno nelle proprie scelte, ma sicuramente non è sempre scontato sentirsi a casa nella casa che la vita ci ha dato e a volte non ci si sente a casa neanche in quella che abbiamo costruito e i ricordi non sono mattoni di una solida costruzione ma fantasmi che si aggirano tra le macerie.


Tra la casa esteriore e la casa interiore non può quindi esservi corrispondenza se non episodica e, forse, casuale. Tra apparenza e sostanza si possono percepire legami più o meno marcati ma non vera coerenza.

Non so ancora come sarà la mia prossima casa e mi diverte immaginarla e immaginarmi nella mia nuova vita. So che mi assomiglierà e mi corrisponderà, ma solo in parte e solo a tratti, so che sarà strumento della mia vita ma non la mia vita.


Prendo in prestito una delle affascinanti visioni di E. Hopper e penso che la mia casa avrà finestre e porte dalle quali entrerà la luce e dalle quali potrò guardare fuori e oltre. Perché per crescere e vivere la casa si deve lasciarla.

sabato 3 marzo 2018

Scrivere


Parlare di cosa sia per me la scrittura all’interno di un blog che ho aperto proprio per impegnarmi a scrivere con costanza potrebbe costituire una sorta di post fondante, lo statuto dl vocabolariosolitario. In effetti non sono proprio sicura che sia così. Proverò a spiegarmi.

Prima di tutto dirò che ho sempre amato la narrazione, ricordo la nonna e la mamma che mi leggevano le fiabe quando ero piccola e ricordo l’immensa gioia di poterlo poi fare autonomamente, ripercorrendo magari la stessa storia infinite volte. Ho ancora il libro di fiabe di quando ero bambina, l’aveva acquistato il babbo a fascicoli e poi rilegato in azzurro. Le mie preferite: Pelle d’asino, e L’acciarino magico. Le fiabe sono una folgorazione e il loro potenziale di creazione e costruzione dell’identità è immenso, come avrei appreso poi da adulta nelle pagine de “Il mondo incantato” di Bettelheim, ma agiscono in noi bambini proprio perché non siamo consapevoli della loro funzione e, in linea con i principi più recenti della Teoria del Cambiamento, ci manipolano usando immagini e situazioni lontane da noi.

La lettura delle fiabe è stata l’inizio dell’esperienza della lettura per me, ed è stata l’inizio di qualcosa che nella vita non mi è mai venuto meno e che rappresenta tuttora una risorsa ineguagliabile di scoperta, conoscenze, compagnia, divertimento, riflessione. Nella lettura si cerca se stessi proiettandosi in una storia che non ci appartiene o dotandoci di nuovi strumenti di comprensione della nostra realtà. Dalla lettura alla scrittura il passo è breve; da bambina scrivevo storie sul giornalino di classe, ho mantenuto crescendo l’abitudine di scrivere attraverso sporadiche pagine di diario, lettere e poesie.


Non ho mai ritenuto di avere una vero talento letterario ed ho scritto sempre per me e per le persone care, per cercare di contattare profondamente me stessa e i miei affetti. Le poesie sono nate quasi sempre da forti emozioni difficili da controllare e gestire, a volte anche da capire. La ricerca di parole per dire certi sentimenti ha sempre avuto il potere di chiarificarli, di farmi individuare alcune sfumature peculiari nei momenti che raccontavo, la natura più vera dell’emozione vissuta, la sua cifra, il suo colore, la parte di me più coinvolta. In sostanza scrivere per me è stato come sottopormi ad una psicoterapia. Non so dire se leggere e scrivere rendano le persone migliori in generale, probabilmente non è così, però posso dire che per me queste pratiche hanno significato crescere e diventare più completa e consapevole, se non migliore.

La scrittura, come la vedo io, ha una funzione di supporto alla vita ed è uno dei possibili strumenti di comunicazione. Non è mai fine a se stessa. Recentemente ho iniziato a frequentare un laboratorio di scrittura proprio per provare a misurarmi con la scrittura slegandola dal mio vissuto e dalle mie riflessioni; per verificare se io sia capace anche di una scrittura che sia creativa non di identità ma di storie universali che parlino anche ad altri. Si tratta, come con questo blog, di sperimentare possibilità espressive e comunicative.
In un certo senso la scrittura non ha mai conosciuto la diffusione attuale diventando mezzo di comunicazione a portata di mano – in senso letterale – di tutti. Grazie a social media e a smartphone tutti possiamo postare i nostri pensieri e i nostri commenti su qualsiasi argomento, aprire un blog è banale, come dimostra il fatto che ci sia riuscita perfino io, e un medium un tempo riservato a una ristretta cerchia di intellettuali, giornalisti e personaggi della cultura si è democraticamente messo a disposizione dell’uomo comune. La conseguenza di questo fenomeno è sotto gli occhi di tutti: una generale banalizzazione e un impoverimento di forme espressive e ancor più di contenuti a fronte di volumi elevatissimi di testi scritti circolanti; mi sembra tuttavia che disdegnare in modo snobistico questa koinè che sta germogliando sia antistorico e poco sensato e che partecipare alla creazione e all’evoluzione di questo nuovo esperimento di comunicazione sia un dovere culturale e civico.

Solo la conoscenza può dotarci infatti degli strumenti per comprendere noi stessi e il mondo in cui viviamo. La scrittura è un mezzo potente, seduce chi legge e chi scrive. Ma è sempre e solo un mezzo, uno strumento, perfino un’arma in mano esseri umani diversi. Lo stesso Platone nel Fedro esprimeva le sue forti riserve nei confronti della scrittura e non a caso ha dato alle sue opere la forma dialogica per preservare il primato dell’oralità:

Quando Theuth venne alla scrittura disse: «Questa conoscenza, o faraone, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare: è stata infatti inventata come medicina per la memoria e per la sapienza». Ma quello rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di dar vita alle arti, e chi invece di giudicare quale danno e quale vantaggio comportano per chi se ne avvarrà. E ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di ciò che essa è in grado di fare. Questa infatti produrrà dimenticanza nelle anime di chi l’avrà appresa, perché non fa esercitare la memoria. Infatti, facendo affidamento sulla scrittura, essi trarranno i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non dall’interno, da se stessi. Dunque non hai inventato una medicina per la memoria, ma per richiamare alla memoria. Ai discepoli tu procuri una parvenza di sapienza, non la vera sapienza: divenuti, infatti, grazie a te, ascoltatori di molte cose senza bisogno di insegnamento, crederanno di essere molto dotti, mentre saranno per lo più ignoranti e difficili da trattare, in quanto divenuti saccenti invece che sapienti».

E’ incredibile quanto le parole di Platone, riferite ai segni che hanno portato ad una svolta nell’evoluzione della civiltà, possano applicarsi in modo puntuale e calzante alle caratteristiche peculiari delle nuove tecnologie che, in particolare per i nativi digitali, costituiscono la chiave d’accesso al mondo e alle relazioni ma anche a se stessi e alla propria “rappresentazione”. Quali dimenticanze può produrre nell’anima il nuovo alfabeto di cui disponiamo? Sempre pensando al pensiero di Platone n chiave moderna si potrebbe dire che la globalizzazione e il web abbiano reso immensa la “caverna” del nostro universo ma quelle che vediamo sono solo ombre, circondati dalla rappresentazione fasulla delle cose reali e perfino delle persone. Memoria e sapienza dell’anima vengono da quello che si vive direttamente nella propria carne e nel proprio spirito e la vita sarà sempre superiore alla scrittura.

Scriviamo, dunque. Dimostriamo ai nostri ragazzi che i social media sono anche confronto, pensiero e conoscenza, che la narrazione è nata prima della scrittura e ben prima dei post, non stanchiamoci di ricordare loro di vivere prima di postare, di coltivare la propria interiorità oltre al proprio aspetto, di ascoltare e parlarsi, di non perdersi sguardi e passeggiate mano nella mano. Una parola pronunciata attraverso un sorriso o rotta da un pianto può dire forse più di una poesia, uno sguardo sincero più di tante lettere, un abbraccio silenzioso più di una promessa.

domenica 4 febbraio 2018

Radio


Oggi non è stata propriamente una bella giornata, anche se questa mattina era iniziata bene con quel bel raggio (lat. radius) di sole che mi ha portata fuori… Ma non volevo parlare delle mie disavventure, volevo parlare di qualcosa che mi fa stare bene ormai da tanti e tanti anni: la radio.
Non una qualsiasi, una in particolare, radio3. Non ricordo neanche come ho iniziato, se in auto o a casa, sta di fatto che in poco tempo è diventata la mia compagna più fidata. Al mattino prima di uscire mi sentivo la rassegna stampa estera e poi Prima Pagina. Al mio ritorno riuscivo ad ascoltare magari la chiusura di Fahrenheit e Hollywood Party, trasmissione dedicata al cinema. Altra mia storica passione. 
Radio Days
Tanti i film che raccontano la radio da Radio Days di Woody Allen a Radio America di Robert Altman, ma tanti anche i film dove la radio è uno dei personaggi anche se non il protagonista, come nella mia vita, penso al romantico Sleepless in Seattle di Nora Ephron con Tom Hanks e Meg Ryan.
Ascoltare è qualcosa che non facciamo mai abbastanza e la radio ci abitua a farlo. In quella disposizione di attenzione partecipata che non ci immobilizza come davanti alla TV ma ci consente di cucinare, stirare, sfaccendare, starsene distesi sul divano con un libro o un giornale, guidare; insomma non interrompe la nostra vita ma si insinua in essa, la integra, vi prende parte. Così conduttori, giornalisti e ospiti più o meno illustri vengono a trovarmi e mi fanno compagnia, come un’amica che siede in cucina con me mentre preparo la cena e nella narrazione o nella dialettica di un confronto trovo la porta d’accesso a qualcosa che va oltre il mio quotidiano, al punto di vista su cui riflettere, al libro che magari potrei leggere, alla sinfonia o al musicista che non conoscevo. Come in un viaggio, attraverso con l’ascolto terre lontane e, come in ogni vero viaggio, al mio ritorno il bagaglio è molto più carico di quando sono partita.
Davvero tante le cose che ho imparato ascoltando la radio, tanti gli scrittori e i musicisti scoperti, proprio come succede con i suggerimenti degli amici, tanti i momenti di emozione, commozione, divertimento, come con gli amici. Ricordo ad esempio Mario Martone che raccontava il suo incontro con Patty Smith e di come si fosse impossessato di un suo anello confessando solo anni dopo il suo “furto”, ricordo i Castelli in Aria di Edoardo Lombardi Vallauri o Paolo Poli che leggeva il libro Cuore, o Massimo Cacciari che commentando il canto di Paolo e Francesca illustrava il pensiero di Dante su amore e ragione e, tuttavia, la sua profonda commozione di fronte alla passione degli amanti. Ricordo i meravigliosi radiodrammi del Teatrogiornale, o le fiabe di Ascanio Celestini a Centolire, ricordo Le oche di Lorenz la sola trasmissione scientifica che sia mai riuscita ad ascoltare. Non posso certo ripercorrere tutto il palinsesto RAI di circa trent’anni di vita insieme a radio3, però ci tenevo a citare alcune trasmissioni che mi hanno accompagnato, e con me la mia famiglia, in questi lunghi anni. Il sabato e la domenica in casa mia la radio resta accesa anche tutto il giorno e in questo preciso momento sta iniziando Il cinema alla radio.
La musica ovviamente è uno degli ingredienti costanti della trasmissione radiofonica di radio3. Quando posso ascolto Seigradi, File Urbani, Battiti e Ritorno di Fiamma, se sono a casa, sempre I Concerti del Quirinale. Con Paolo abbiamo anche assistito dal vivo ad uno di questi nella Cappella Paolina in un bellissimo weekend romano.

La Guerra dei Mondi
In una domenica iniziata parecchio male le voci familiari della radio si sono aggiunte a quelle care degli affetti e mi hanno dato sostegno. La loro discreta presenza ha abitato questa casa con me, nella mia realtà e nella mia verità di oggi, anche difficile. Proprio questo integrarsi nella realtà e questo ascolto partecipato e attivo conferiscono verità all’evento radiofonico.
 Basta pensare a quello che successe nel 1938 quando Orson Welles mandò in onda la trasmissione su “la Guerra dei Mondi” di H.G. Wells.

Come noto, alcuni ascoltatori presero per vera la rappresentazione e credettero all’invasione degli alieni; praticamente la madre di tutte le fake news!

Questo raggio di sole elettromagnetico vale per me mille domeniche di bel tempo. Adesso vado a preparare la cena, come sempre, radio-attiva.


Sesso