Sono seduta davanti al pc nel
soggiorno del mio appartamento e osservo una pagina bianca dove ho scritto la
parola casa; quello che vorrei è
chiarire a me stessa che cosa significhino queste quattro lettere per me
veramente e in quale misura nella mia vita possa averle declinate nella forma
sbagliata arrivando a sentirmi fuori posto proprio nel luogo al quale avrei
dovuto appartenere.
In effetti il fatto di sentirmi
fuori posto mi ha accompagnato per lunga parte del mio percorso e in contesti anche molto diversi. Fin da ragazzina ho
sempre avuto la convinzione che “nella mia casa” avrei finalmente sentito di
essere al posto giusto. Immaginavo la casa come il nido, dei confini appena più
vasti, ma non di molto, di quelli della mia persona.
Da allora di case ne ho cambiate
tante e sono cambiata anche io e mi sento un po’ come Alice nella casa del
Bianconiglio: troppo piccola o troppo grande dentro confini che non combaciano
mai con il mio profilo.
Ci deve essere un equivoco di
base legato al significato che diamo alla parola casa. Accanto al significato di edificio,
abitazione vi è un’accezione del termine che sposta la sua sostanza ad un
livello soggettivo ed emotivo per niente legato a mattoni e cemento. Il
sentirsi a casa, essere di casa, giocare in casa ci trasmettono un’idea di
familiarità, di ciò che conosciamo e che ci conosce, di cui siamo parte. Una
sorta di ventre materno che però non dobbiamo lasciare per nascere e nel quale
ci sentiamo sicuri e riconosciuti. Tuttavia mi pare che di questa casa non sia
così scontato avere le chiavi.
In inglese due parole diverse: house e home, distinguono l’edificio
e la casa emotiva e la parola home ha
la stessa radice dello heim tedesco
con il quale si è formata anche la parola Heimat
(patria). I tedeschi hanno due termini per dire nostalgia e una di queste è per l’appunto Heimweh che rappresenta proprio la pena che si prova per la
mancanza della casa d’origine, della propria terra, di ciò a cui apparteniamo.
Questa casa ha una connotazione tutta culturale e molto legata alla cultura
occidentale. Immagino che popolazioni nomadi o culture animiste abbiano
metafore diverse per rappresentare familiarità, desiderio, bisogno di
appartenenza.
Sicuramente le nostre origini ci determinano
in buona parte e la memoria, i sapori, gli odori e soprattutto le parole della
nostra vita costituiscono i mattoncini dell’edificio di questa nostra piccola
patria. E’ anche vero che non sempre ci riconosciamo nelle nostre origini,
molti non si riconoscono nemmeno nelle proprie scelte, ma sicuramente non è sempre scontato
sentirsi a casa nella casa che la vita ci ha dato e a volte non ci si sente a
casa neanche in quella che abbiamo costruito e i ricordi non sono mattoni di
una solida costruzione ma fantasmi che si aggirano tra le macerie.
Non so ancora come sarà la mia
prossima casa e mi diverte immaginarla e immaginarmi nella mia nuova vita. So
che mi assomiglierà e mi corrisponderà, ma solo in parte e solo a tratti, so
che sarà strumento della mia vita ma non la mia vita.
Prendo in prestito una delle affascinanti visioni di E. Hopper e penso che la mia casa avrà finestre e porte
dalle quali entrerà la luce e dalle quali potrò guardare fuori e oltre. Perché per crescere e vivere la casa si deve lasciarla.
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