In tanti hanno scritto dei diari
durante la quarantena. Descrizioni a volte anche minuziose di un quotidiano
ristretto e autoreferenziale, alle quali facevo fatica a interessarmi anche
quando scritte da abili penne.
Adesso che la quarantena è
superata e sostituita da prudenza e distanza. Adesso mi viene voglia di
interrogarmi e annotare questo confronto con un mondo immutato oppure del tutto
inedito.
Per qualche strano motivo, forse
chiaro a psicologi e terapeuti ma a me oscuro, di fronte alla realtà fenomenica
e altra mi sento spaesata e, a tratti, affaticata. Infatti, se la cifra del mio
vivere in quarantena era quella dell’impegno. Un voto monastico a rispettare
orari, riti, prestazioni professionali e cure familiari e domestiche; ecco, la
cifra di questa nuova fase di riabilitazione alla vita è quella di una fatica
interiore e anche fisica nel recupero dello spazio e della socialità. Questo
lungo isolamento è stato connotato da una miscela tra una profonda
introspezione e un’attenta osservazione dell’umanità e della realtà, ovviamente
nella loro rappresentazione veicolata dai mezzi di comunicazione e
informazione. Uno studio antropologico e sociale del quale mi trovavo a essere
oggetto e soggetto insieme.
Tutto è cambiato; eppure, non per
tutti allo stesso modo.
Per molti questa emergenza ha
significato malattia e lutto; per alcune categorie, lavoro in condizioni di
rischio ed emergenza. Su tanti si sono abbattute le spietate conseguenze della
crisi economica. Per molti si è trattato di un cambio di vita, di abitudini e
di quotidiano. Una reclusione forzata tra le quattro mura domestiche in un
palinsesto di attività alcune smart e altre con la scopa o il mestolo in mano.
C’è stata una riscoperta del nido, per chi ce l’ha, e della famiglia. Una
famiglia a tratti anni cinquanta, con angeli del focolare intenti a sfornare
pane e torte di mele, un po’ tribale, in una strenua difesa della capanna, a
tratti contaminata da un esterno che, trovando la porta sbarrata, si è
introdotto in casa dallo schermo.
Dalle nostre celle di clausura
abbiamo incontrato la professoressa impegnata nella DAD con il marito che
transita alle sue spalle intento a caricare la moka, il collega spettinato, con
la felpa, che partecipa alla riunione seduto sul letto, la voce del bimbo che
chiede come risolvere il problema di matematica, il sorriso di un amico felice
di vederti, pur da lontano. Il lavoro si è impossessato del salotto, occupando
un tavolo che un tempo serviva per ospitare gli amici a cena. Il lavoro, che un
tempo era davvero remoto, anzi, quasi recondito, si è avvicinato e scoperto,
gettando una luce su una porzione della nostra vita per lo più ignota a chi ci
vive accanto. Gli insegnanti hanno visto camerette disordinate e tappezzate di
foto e oggetti; gli studenti hanno fatto esperienza dei professori incorniciati
da affetti e suppellettili, probabilmente più umani e, spesso, teneri ai loro
occhi, nel tentativo di familiarizzare con strumenti mai sperimentati. Genitori
sempre altrove si sono ritrovati sotto lo stesso tetto dei figli per un tempo
lunghissimo.
Nessuno avrebbe probabilmente
scelto anche solo una delle manifestazioni di questo esilio dal mondo, eppure,
questa esperienza ci ha regalato consapevolezze mai intuite prima.
Di contro, il mondo si è
ristretto. Hanno fatto il loro ritorno i confini e sono cresciute le distanze
da interporre tra le persone. Come vittime di un’illusione ottica siamo
inizialmente spariti, puntini infinitesimali perduti in una natura
incommensurabile, ridotti a numero da statistica. Nel microscopio della nostra
vita in cattività quel puntino si è ingigantito a dismisura, mentre il mondo si
andava restringendo sempre più. E mentre fuori si riaffacciavano i confini ci
siamo resi conto di non esperire più il confine del sé, confuso in un habitat
sempre uguale o esercitato in un esterno ove lo spazio si espande per decreto o
ordinanza, quando non per paura.
Stiamo gradualmente riacquistando
spazio e incontri pur con prudenza e limitazioni, più o meno elastiche;
tuttavia, questo percorso di avvicinamento è pensato per farci tornare a
consumare, ma non veramente ad incontrarci ed essere vicini.
Quello che è successo è immane e
chi ne nega la gravità offende la memoria dei defunti e dei malati e usa
strumentalmente il malcontento per trarne vantaggio personale, tuttavia, non è
accettabile trascurare le conseguenze umane e sociali oltre che sanitarie,
economiche ed educative di questa epidemia.
L’essere umano acquisisce
abitudini con estrema facilità e l’abitudine alla distanza e all’isolamento
potrebbe lasciare tracce indelebili e difficili da curare in una civiltà già
estremamente individualista e prigioniera della realtà virtuale.
Non sentivo il bisogno dei diari
della quarantena, ma vorrei che ora ci fermassimo a pensare a come vogliamo
accostarci all’altro nella fase di riabilitazione che abbiamo davanti.
Mi piacerebbe che questo momento
fosse raccontato perché l’introspezione senza occasioni di confronto resta una
vuoto mulinello. Solo nell’incontro si può conoscere anche se stessi e credo
saremo tutti curiosi di sapere come siamo cambiati nel passaggio che abbiamo
conosciuto. Cosa guida l’avvicinamento all’altro in questo strano tempo? Curiosità,
affinità, desiderio, timore, forse, cura. Si vede tanta rabbia in giro. Quando viene
meno il prossimo, fanno la loro comparsa i nemici e le contrapposizioni. Ecco,
credo sia la “fase” di cui dobbiamo preoccuparci tutti.
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