domenica 17 dicembre 2017

Esprimersi

L'espressione di sé è un tema molto popolare tra psicologi, psicanalisti e pedagogisti e anche direi fra non addetti ai lavori. Si tratta ovviamente di cosa sacrosanta che non voglio minimamente demolire proprio io che sostengo la necessità di verità e consapevolezza. Quello che mi lascia perplessa è che un atto di libertà e sincerità possa in effetti essere viziato da un malinteso di fondo. Il malinteso è la cornice di individualismo ove si realizza questa rivelazione di interiorità.

Esprimere deriva da spremere e mi pare non necessiti spiegazioni. Questo tirare fuori, presuppone quindi un "fuori", il vero agente del processo. L'espressione si realizza nella reciprocità, come scambio, stimolo, dare e ricevere. Questo è profondamente vero quando cerco di manifestare il mio pensiero all'uomo che amo o a mia figlia, ma non lo è di meno se il "fuori" è più vasto e variegato, come ad esempio coloro che leggeranno questo blog. Pensiamo, per fare un esempio più illustre ad artisti come la Abramovic e al senso che avrebbero le loro rappresentazioni prescindendo dalla relazione con il pubblico.
Ogni spremitura diviene rivelazione solo nel momento in cui è raggiunto l'interlocutore, altrimenti non è espressione ma paranoia.

Sempre più spesso mi trovo a pensare che questo malinteso sia all'origine di buona parte del malessere che affligge la nostra società. In tempi nei quali tutto è lecito la potenza liberatoria dell'espressione dell'interiorità sembra quasi aver mutato di segno.

Spezzare legami o infrangere tabù e regole imposte non realizza la rivelazione, né libera alcuna energia rimanendo l'espressione sempre confinata agli angusti limiti dell'individuo.

Mia figlia è andata all'asilo quando aveva un anno e mezzo. In quel periodo il suo carattere subì una naturale trasformazione originata dal confronto, anche acceso, con gli altri bambini. Iniziò ad essere possessiva, gelosa delle sue cose, gridava spesso "E' mio!", qualche volta era anche prepotente. Non mi sembrava più lei. Chiaramente doversi contendere un giocattolo o l'attenzione di un'educatrice, dover pazientare in fila per avere la pappa o essere presa in braccio, doversi confrontare con altri bambini, a volte passando per un conflitto, hanno inciso in questa sua metamorfosi. Da uno spazio autoreferenziale dove ella si trovava al centro delle attenzioni di un esercito di adulti adoranti pronti a soddisfare ogni suo bisogno, era passata ad una realtà nuova e frustrante dove imparava che la soddisfazione dei bisogni non è un automatismo.
Ho dimenticato di aggiungere una cosa, Anna si svegliava la domenica mattina e mi chiedeva "ma oggi non si va a scuola?" e metteva il broncio quando le dicevo "no". Chi l'avrebbe mai detto che in una fase pre-sociale e in un contesto che le generava anche frustrazioni una piccolina di due anni desiderasse andare anche la domenica. Forse perché in quel confronto realizzava l'espressione di sé più che al centro di una galassia di adulti essendo costretta a modularsi su quel "fuori" meno condiscendente.

A volte mi imbatto in articoli sull'età evolutiva che propongono approcci deregolamentati all'istruzione e alla formazione per consentire lo sviluppo pieno e libero di quel sé che deve esprimersi, come se fosse un monolite assoluto e cristallizzato piazzato da qualche parte all'interno degli individui in attesa di essere spremuto, come se non si formasse proprio dentro il limite e nel confronto, come se non si modulasse sul soggetto al quale rivelarsi, come se non si rivelasse allo stesso individuo proprio nella relazione e nella reciprocità.

Quando mia figlia ha iniziato a dire "E' mio!" ero quasi infastidita.. poi mi sono abituata e anche lei ha capito che non era tutto suo e tutto per lei. Adesso che ha quasi sedici anni e per affermarsi mi attacca e mi nega, faccio fatica, a volte reagisco pure male sfiancata dalle discussioni e dall'atteggiamento di sfida. Spero che nel confronto che abbiamo le si riveli il sé che cerca faticosamente di definire come tutti gli adolescenti.

Mi è meno facile capire le persone della mia età che si mettono al centro della giostra e cercano la perenne soddisfazione di bisogni. Mi è quasi impossibile capirli quando per affermarsi sentono il bisogno di negare gli altri. Credo che questa abusata espressione del sé possa rivelarsi una trappola involutiva. Nella negazione dell'interlocutore si nega anche ogni possibile espressione della propria personalità e interiorità. Un'importante acquisizione del ventesimo secolo sta diventando la patologia del ventunesimo.

La nostra interiorità si rivela solo grazie agli altri, a quello che leggiamo, alle parole che ascoltiamo e che diciamo interagendo, a quello che vediamo guardandoci intorno. L'espressione è tale se viene accolta e raccolta, ed è adulta se nasce a sua volta da un accoglimento e non da una negazione.

Esprimiamoci pure ma cerchiamo non la soddisfazione di bisogni individuali ma la rivelazione dei veri bisogni che possono nutrire le relazioni della nostra vita.


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