Alcuni giorni fa con il Laboratorio di scrittura di Alessandra siamo andati in gita e la meta della gita era Piazza D'Azeglio, dove Alessandra ci ha chiesto di scrivere una storia, un ricordo, una descrizione; insomma, ci ha chiesto di sedersi su una panchina e narrare. Io ho un ricordo legato a quella piazza che non mi ha lasciato scelta e voglio condividerlo sul blog con questo titolo perché credo alle parole di C.S. Lewis, autore fantasy di Narnia, che "amare significa essere vulnerabili" e credo che lasciarsi ferire sia una capacità, una vera abilità, strettamente connessa alla nostra capacità di amare.
Piazza D'Azeglio
Foto di Alessandra Cafiero
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La sistemai sul
passeggino e lo sollevai con lei seduta che mi guardava sempre piena
di stupore. Con una forza che prima di Anna non sapevo di possedere
scesi le scale, così, la borsa su una spalla e il passeggino contro
il corpo. Uscii in strada, borbottai contro i soliti automobilisti
indisciplinati e le auto parcheggiate sul marciapiede che mi
costringevano a continue e pericolose deviazioni in piena
carreggiata.
Non credo di aver
mai veramente avuto paura della morte fino alla gravidanza e ai primi
anni di vita di Anna. Ricordo con chiarezza il terrore di essere
investita, di abbandonarla, di venir meno al mio compito.
Piazza D’Azeglio
era quieta e assonnata un po’ come me, spossata da una notte
faticosa. Feci scendere Anna e tenendola per mano la portai a
cavalcare sulla molla e poi sull’altalena.
Il suo passo era
ancora incerto e traballante, aveva un anno e mezzo. La presi in
braccio e la sistemai sull’altalena. Rideva felice pronta a volare
e io la tirai verso di me guardandola sorridere e poi la spinsi via
con forza per farla volare in alto. L’altalena oscillò
all’indietro e quando raggiunse la massima altezza, in
quell’istante di fermo immagine che segna l’inizio della discesa
e del ritorno, la vidi scivolare lentamente, le manine sollevate,
inermi.
Il colpo ai denti fu
violento, piangeva, il viso insanguinato. Non ricordo più bene.
Ricordo una signora che mi si accostò porgendomi il dentino. Ricordo
di essere andata al Meyer in taxi.
Poi ricordo molto
bene quel sorriso bellissimo e perfetto devastato e scomposto da un
vuoto, una ferita sempre aperta.
“Vede signora il
trauma purtroppo ha danneggiato gli alveoli. Gli incisivi anteriori
non cresceranno”
“E quindi, scusi,
cosa posso fare, un impianto?”
“Si, certo. Quando
avrà 18 anni, non prima”.
Ricordo bene le
visite dal dentista, le radiografie, le TAC, gli apparecchi, il dito
in bocca che faceva diventare sempre più grande la finestra che le
squarciava il sorriso. Ricordo le richieste sempre uguali: “Ti è
cascato un dente? E’ passato un topolino?” . Ricordo Anna
paziente. Ferita e paziente.
Ricordo bene quel
giorno ad agosto 2013, la mamma era morta da poco più di un mese e
sulla gengiva, là in alto, si vedeva come un puntino. Ricordo Anna
che si toccava e si guardava allo specchio finché non fu certa che
quel puntino era un minuscolo pezzettino di quel dente informe, scuro
e senza radice che nonostante tutto aveva trovato la strada e voleva
uscire.
“E’ stata la
nonna dal cielo” disse.
Forse era davvero
così e so che la mamma se avesse potuto farmi un regalo mi avrebbe
fatto proprio quello.
Ricordo quando
lasciammo il dentista, due anni fa, con le faccette lisce e bianche
poste sopra quelle escrescenze sgraziate. Ricordo di averla guardata
sorridere felice. Mai così felice. Mai quanto me nel vederla.
Quante volte ho
pensato che quella mattina avrei potuto rimanere a casa e non
portarla ai giardini, avrei potuto non metterla sull’altalena,
accorgermi che era difettosa.
Questa storia è
ancora oggi la storia della mia vita che vorrei riscrivere. Il
destino che vorrei cambiare. La forza degli eventi che non possiamo
controllare, il dolore che dobbiamo accettare, la colpa che dobbiamo
portare.
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